tontonews

Tonto - come si evince anche dal nome - è un blog in prevalenza satirico che, prima di fare dell'ironia sugli altri, è capace di ironizzare su se stesso. È stato aperto nel 2006 in un Paese che, dalla caduta del fascismo in poi, garantisce, come diritto costituzionale, l’esercizio e la libertà di opinione (e di satira: dall’ironia, alla critica sarcastica, allo scherno e all’invettiva di carattere moralistico su aspetti e personaggi pubblici della vita contemporanea). Se qualcuno, per qualche ragionevole motivo, non fosse d’accordo con opinioni espresse e contenuti, farà riferimento al link indicato nella colonna a destra del blog.

 

Ma il Ventennio non muore mai. Neanche in un condominio.

Sempre sul condominio, laboratorio di antropologia culturale.

Ci riprovano. Magari a singhiozzo, a targhe alterne, ma ci riprovano, con le celebrazioni e le rivalutazioni. Del resto, la Meloni eletta dalla ridicola propaganda dei suoi scudieri “star internazionale” e “nuova Merkel” è un ottimo sostegno. Parlo del Ventennio, ovviamente, e dei suoi sviluppi, nelle grandi come nelle piccole cose. Qualche anno fa,
la studiosa statunitense (di madre scozzese e padre israeliano) Ruth Ben-Ghiat si chiedeva come mai in Italia sopravvivessero tanti monumenti del periodo fascista. Attraverso processi di stratificazione e trasformazione delle preesistenze (in Italia non si butta via niente, al limite si trasforma), le hanno risposto. Ecco il problema: le "preesistenze"; che non sono pre: sono sempre vive e lottano insieme a noi.

Io vivo in un vecchio edificio del 1925, e fin qui ci siamo, nel senso che siamo in tema. Però è un palazzo con dei cenni liberty, piuttosto ibrido, in architettura si dice “contaminato”, perciò anche sgraziato, se vogliamo; progettato e costruito da un architetto campione del primo Liberty milanese, ma non del nostro palazzo, che è meno di pregio, perché destinato, più che a quella alta, alla medio borghesia dell’epoca. Diciamo un liberty minore. Tra l’altro io abito in una delle scale meno nobili, caratterizzata comunque da uno stile riconoscibile e armonioso, comune ad altri palazzi milanesi della stessa epoca: mi è capitato recentemente di trovare lo stesso decoro architettonico, lineee e spazi, uguali stucchi e decorazioni in un edificio di via Zezon, in pratica una scala gemella.

A volte mi chiedo che cosa abbiano assorbito, i muri, di quegli anni. Proprio quando il palazzo veniva costruito, tra il 1925 e il 1926, il regime fascista emanava la nota prima serie di provvedimenti liberticidi: sciolti tutti i partiti e le associazioni sindacali non fasciste, soppressa la libertà di stampa, di riunione o di parola, ripristinata la pena di morte, istituito un Tribunale speciale per i reati di matrice politica. Poi me ne dimentico, di queste cose. Sinché qualcuno scoperchia la pentola. Ed è successo l’altro giorno.

Non mi sono mai piaciuti i futuristi e le loro scempiaggini (avete mai letto il Manifesto di Marinetti?). Sì, giusto un po’ di Rodčenko e Majakovskij (riferimenti che ho usato anche in pubblicità), ma altra cosa rispetto ai nostri, quelli di cui Benedetto Croce diceva: “Per chi abbia il senso delle connessioni storiche, l’origine ideale del fascismo si ritrova nel futurismo”. Ma che cosa è successo l’altro giorno? È successo che scendo le scale (non prendo quasi mai l’ascensore) e, appeso ad un muro del pianerottolo del piano terra trovo, in bella mostra, un quadretto astratto di Giacomo Balla. Direte, sì, dài, Balla era bravo. Bravo un corno: vedermi in casa il fantasma dell’artista del fascismo per eccellenza, a meno di un mese dal Giorno della memoria, mi girano le scatole. E poi cosa c’entrano quei colori accesi e spiritati, quelle geometrie, con il contesto, con l’insieme armonico: è chiaro che è un’installazione arbitraria di un elemento disarmonico ed estraneo. Tanto che, in preda a uno dei miei impulsi bestiali, prendo il quadretto, una patacca con la sua bella cornice di polistirene, e lo porto giù in cantina, locale immondizia.

Il candido autore dell’installazione, che non si era curato di chiedere l’autorizzazione a nessuno, si è offeso. Tra l'altro aveva danneggiato anche il muro. “Me ne frego”, avrei voluto rispondergli con il tono dominante di D’Annunzio, ma pure “ardisco non ordisco” e perché no “o giungere o spezzare”. Ma poi ho lasciato perdere. Ci sono artisti e artisti. “This machine kills fascists”, questa macchina uccide i fascisti, era scritto sulla chitarra di uno dei più grandi artisti del ‘900, Woodrow Wilson Guthrie, detto Woody, a cui tutti dobbiamo qualcosa, non solo Dylan, che, ricalcandolo agli inizi, ha pure vinto un Nobel. Ecco, può essere un’idea. Ucciderne la memoria - di Balla e dei fasciofuturisti, insieme alla loro piena adesione al regime che emanò le leggi razziali del ’38 - almeno per qualche altra settimana, almeno ancora un po’, aspettando che si affievolisca il ricordo del Giorno della memoria, quella degna di essere conservata: non mi sembra una brutta idea.

 

 Milan l'è on gran Milan.

Milano è la città dei grandi numeri, così si dice. Anzi, è una "città premium" (come dice Dario Di Vico, che però è nato in un paesino del frusinate, e si vede). Me ne sono accorto nel momento in cui abbiamo ricevuto una lettera raccomandata dell’amministratore condominiale, in cui, con “dispiacere”, comunicava che “ignoti” avevano svuotato il conto corrente del condominio (circa 30mila euro), insieme ad altri 22 conti di condomìni tutti riconducibili allo stesso amministratore, che li gestiva con delega esclusiva e che disponeva in solitaria dei codici di accesso. Strano che nessun organo di stampa locale ne abbia dato notizia, perché la storia è succulenta: in totale, sono volati via circa 600mila euro in un solo colpo. Un record degno della grande Milano. E tutto in una notte, veloce, adelante stile fast & furious. Meno fast è stata la tempistica: il genio l’ha comunicato con calma (Keep Calm and Carry On, dicevano gli inglesi nella Seconda guerra mondiale, che infatti contarono alla fine della fiera 390mila morti), cinque mesi dopo il furto. In sostanza, stiamo parlando di un coglione (nella migliore delle ipotesi) a cui hanno sfilato 600mila euro. Direte: ha reintegrato la somma? Ovviamente no. Non gli compete: perché lui è noto, mica un ignoto. Per sua fortuna, Milano è una città col coeur in man, un modo ipocrita e arcobaleno per dire che c'è pure spazio per gli allocchi, e non pochi: tanti. Infatti, pare che per il momento nessuno lo abbia denunciato. Su 22 condomìni, qualcuno lo ha cacciato, altri lo hanno lasciato al suo posto, con una giustificazione disarmante: tanto, sono tutti uguali. Magari avranno pure pensato di metterlo in lista per l'Ambrogino d'oro, visto che ormai lo danno a chiunque. Perché Milano è una città aperta: qui c'è posto per tutti. Ormai al Famedio iscrivono i "delinquenti naturali" (copyright Massimo Fini). E l'Ambrogino d'oro lo danno pure ai pagliacci (vedi Andrea Pucci), da quando nelle selezioni è entrato in vigore il manuale Cencelli. Tutto è possibile in questa Milano che cambia.

 

Cemento.

 

Milano, piazzale Ferdinando Martini, frase apparsa nella recinzione di un cantiere: "Ho bisogno di una pausa". È la più sensata tra quelle viste negli ultimi tempi. Ogni ora in Italia il cemento si mangia un'area di verde grande come un campo di calcio, e in un anno vengono perduti 51 chilometri quadrati di terreni. Tra il 2006 e il 2020, nell’Area metropolitana di Milano sono stati consumati 2153,2 ettari di territorio. Nella città lombarda ogni residente ha oggi a disposizione poco più di 50 metri quadri di aree non consumate, a fronte dei 350 mq per abitante disponibili invece a Roma. C'è proprio bisogno di una pausa, ma vallo a dire a Sala e ai compari che rappresenta, di ampio raggio: da destra (i suoi parenti più prossimi) a manca (i suoi parenti acquisiti).

 

Sala, doppio salotto e contropaccotto.


(16 agosto 2019) È andata così. Il 16 agosto vado al mio solito ufficio postale, ma trovo chiuso. Ohibò, dico, non è Ferragosto, è il giorno dopo Ferragosto, un venerdì. Insomma un giorno feriale.

Chiuso? Mica siamo nella Roma dell’imperatore Augusto, siamo a Milano, Città studi, zona semi-centrale, anzi abbastanza centrale perché per andare in piazza del Duomo impiego 8/10 minuti in bici. È così che, sulla triste strada del ritorno, mi viene in mente il sindaco Giuseppe Sala quando, sulle chiusure degli esercizi commerciali nei festivi, aveva risposto a muso duro - con quel tipico physique du rôle a metà tra i Legnanesi e chi ha vinto alla lotteria milionaria dell’Expo - al ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Luigi Di Maio (che in realtà proponeva dei turni domenicali di riposo, non tanto delle chiusure totali): “Se lo vogliono fare, lo facciano ad Avellino; qui non ci rompano le palle, noi abbiamo un modello che funziona e nove milioni di turisti”. Perché Milano non chiude. Mai. Infatti il 16 agosto è più facile incontrare un pet store aperto ("prima i cani") che un ufficio postale.

La storia delle palle, Sala la disse a una folta platea di professorini e benestanti lumbard ridanciani, alla “Bicocca” (nota bene: l’etimo di “bicocca” è abbastanza incerto, ma il significato è chiaro e limpido, cioè “casupola”, “catapecchia”, “casa fatiscente”), durante un convegno, udite udite, sull’occupazione femminile, ovvero sulle figure più sfruttate e malpagate da Adamo in poi.

E allora ci ragiono su e mi dico, va bene che gli uffici postali non sono esercizi commerciali: sono qualcosa di più. Perciò non mi arrendo e vado nel sito delle Poste; cerco gli uffici postali a Milano, e il risultato è sorprendente: la mattina sono aperti sette uffici, ma in centro (quelli di Gratosoglio, per dire, invece si gratano, con una t, giusto per risparmiare risorse e fare un po' di spending review), però nel pomeriggio soltanto due. Due uffici per un milione e quattrocento mila abitanti più i famosi  nove milioni di turisti di Sala. Vabbè mi dico, e che sarà mai, vuol dire che staremo un po’ strettini. Però nel dubbio (ottimista sì, realista un po’ di più) alla fine rinuncio.

E comunque il dubbio resta: e invece ad Avellino? Controllo velocemente sempre nel sito delle Poste, e sorpresa: la mattina risultano 6 uffici postali aperti, in pratica come a Milano. E il pomeriggio uno, contro i due di Milano. Sette uffici la mattina e due di pomeriggio per 1.400.000 abitanti a Milano; sei uffici la mattina e un ufficio il pomeriggio per 53.900 mila abitanti ad Avellino. E non basta. Siccome voglio farmi del male, e visto che sono sempre incartato nel sito delle Poste, cerco gli uffici postali a Olbia, così, per curiosità: i due uffici postali di Olbia sono regolarmente aperti. Due come a Milano. Soltanto che Olbia fa 59.000 abitanti (meno uno, cioè io).

Riepilogando: soltanto due uffici aperti per un milione e mezzo di abitanti e i famosi nove milioni di turisti di Sala. Però al centro, eh, nel salotto buono di Milano. E sono soddisfazioni. Vuoi mettere con Avellino o con Olbia? No, non voglio mettere. Però, se per sopravvivere a quelli come Sala con cui non sai mai se la verità è sopra o sotto il tappeto, l’unica medicina è l’umorismo, il primo che mi viene in mente è il mio corregionale quasi oscar Nanni Loy. Proprio lui,  con i suoi micidiali contropaccotti.

P.S. Nelle mappe seguenti tratte dal sito delle Poste, in ordine: Milano, Olbia, Avellino.


Cake news.

(Maggio 2019) Dice: ma che cosa sono le “cake news”? Sono la nuova frontiera delle fake news insieme all'arte di edulcorare, quelle cose per cui:

1) Se succede a Roma, il Corriere della Sera scrive: bus in fiamme, caos a Roma, panico tra i passeggeri che sfiorano la morte.

2) Se succede a Milano, il Corriere della Sera scrive: bus in panne, insignificante disagio risolto immediatamente dagli stessi passeggeri che spingono a mani nude il bus incandescente per 8 km sino al capolinea, con una di quelle straordinarie prove di umanità, di solidarismo, di inclusione, sensibilità, tolleranza, coesione sociale, senso di responsabilità e civismo di cui è capace soltanto Milano. Il sindaco Sala indice una manifestazione a Palazzo Marino per un pubblico ringraziamento alla presenza di tutta la stampa estera e premia i coraggiosi passeggeri con l'attestato di stima "Col coeur in man". (Però per sbadataggine firma il documento retrodatandolo).


I buonissimi.

(Maggio 2019) Questa settimana è uscito il nuovo "7" del Corriere della Sera, con un nuovo direttore, donna, al posto di Beppe Severgnini, essere umano adulto di genere maschile, che nella generica classificazione delle specie di organismi viventi e fossili della zoogeografia di Fortune 500 viene prima di Alessandro Sallusti e subito dopo Mimmo U Curdu.

Il nuovo Sette, forse anche più di quello precedente, è un giornale molto buono: una barricata (femminile di "barricato", tipo un Barolo austero, almeno 190 euro a boccia) di resistenza capitalista contro il male assoluto, che oggi, come è noto ai lettori di Fubini, Cazzullo o Sabino Cassese e altri viaggiatori in wagon-élite, coincide con sovranismo e populismo. Ma è una bontà disposta su diverse gradazioni e/o nuances. C’è il buono assoluto di Gramellini, a cui viene affidata la posta del cuore, naturale approdo anatomico dopo anni dedicati al mal di fegato. Poi c’è il buono relativo, il quasi buono e il buono ma anche no. Ci sono editorialisti buoni di sicuro, come Antonio Polito, ma solo perché convolati a nozze in tempi non sospetti con la Croce Rossa (moglie direttore generale e poi commissario liquidatore, come può capitare solo ai preti che con la destra danno l’estrema unzione e con la sinistra si scongiurano). E tante, tante, tante cake news per tutti, con scrittori vecchi o esordienti molto buoni, tra cui i sette nano-zuccheri Mannitolo, Sorbitolo, Xilitolo, Glucitolo, Lattulosio e Xilosio, più un cugino adottivo che però non fa rima col resto, infatti si chiama Aspartame. E poi servizi micidiali del tipo “perché la crisi di mezza età oggi spinge tanti uomini e donne a fare più sport?”. E chi lo sa. E c’è persino la Gruber, che con quei due gommoni di labbra non rischia di certo il naufragio, infatti si avvia a diventare vice guardiamarina onoraria della Guardia costiera, ulteriormente ritoccata Abarth con un motore fuoribordo Suzuki albero corto.

Il nuovo 7 è così nuovo, che esordisce con un’intervista del buonissimo Walter Veltroni (il mitico Uòlter che da direttore voleva rilanciare l’Unità - poi andata all’asta come un rouget barbet qualunque ai mercati generali del pesce - con la raccolta delle figurine Panini, ma fosse stato per lui, che più invecchia più assomiglia a Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena, avrebbe distribuito pure le figurine Brioche) al nuovissimo Gino Paoli, 84 anni. Tutte vergini rifatte. In tutto 54 domande e 54 risposte. La domanda numero 55 però si è persa sotto la panna. Era questa, e noi siamo in grado di resuscitarla.

Gino, quando sei diventato presidente - in un paese che non ammette la concorrenza neanche nella gestione del diritto d'autore - del monopolio Siae (quella specie di polizia segreta che se dei bambini fischiano a una festa un pezzo di Jovanotti, ti mandano le teste di cuoio per costringerli a fare il borderò, svuotare i salvadanai e staccare il biglietto a morsi), hai dichiarato, innanzitutto, da buon ex deputato eletto col Pci, guerra all’illegalità promettendo di contrastare la pirateria. Con molta enfasi. Ti ricordi? Poi sei stato costretto a dare le dimissioni perché ti hanno beccato alla frontiera Svizzera con un sacco di palanche mentre provavi a riportarle in Italia. Secondo l’Agenzia delle entrate, non avevi dichiarato due milioni di euro, perciò te ne chiedeva 800 mila. Secondo gli inquirenti, avevi messo in Svizzera un tot di nero, frutto anche delle feste dell’Unità. Che il rosso e il nero son colori che si completano, a volte. Poi è andato tutto in prescrizione perché il giudice non capiva se avevi iniziato a portare il malloppo in Svizzera prima o dopo il 2008. Domanda: non è che, inseguendo il nero, credevi di dare la caccia alla bandiera dei pirati? Domanda senza risposta. Del resto, The Black Pirate, il film di Albert Parker del '29, cinema più o meno della tua epoca, era un film muto, no? E comunque, chi se ne importa. Adesso che ti ha intervistato il buonissimo Walter, sei pulito per sempre: sapone di sale, sapone di mare, che hai sulla pelle, eccetera.
Walter Veltroni intervista Gino Paoli


Gomorrea.

(Maggio 2019) È ripartita Gomorra, la nota serie televisiva di genere ridicolo-criminale. Ne dà notizia Sky Italia che, nello stesso tempo, comunica anche la produzione della quinta stagione. Lo conferma Saviano, che il 4 maggio posta una foto su Instagram dove viene mostrata la "fase di scrittura" - per il momento sono fermi alle aste, poi forse passeranno alle maiuscole, magari con l'aiuto del pangramma - della quinta ed ultima stagione. L’Organizzazione mondiale della sanità rassicura e informa che, in considerazione della diffusione limitata a carattere locale, non c'è pericolo di pandemia.


Primo maggio, la festa ai lavoratori.

(Maggio 2019) Mentre i sindacati festeggiano a Roma guidati dalla paperella di Boncompagni Ambra Angiolini e a Taranto immersi nella nuvola di retorica anti-origine-di-tutti-i-mali cioè i 5 Stelle (come se l’Ilva/Italsider fosse un’invenzione di quel poveretto del Luigino, e la distrazione sulla tutela del diritto alla salute dei tarantini non fosse una colpa dei governi - citiamo soltanto gli ultimi - Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, e, per dire, manco una parola su Ciccio Calenda) del sedicente “Primo Maggio più critico e militante d’Italia” (con, tanto per gradire tra una cozza e due chiancaredde, un collegamento - ma sarebbe meglio parlare di scollegamento - speciale dal palco dedicato a un ex sindaco accusato dalla procura di Locri di truffe per 350mila euro, abuso d’ufficio nell’affidamento dell’appalto per la differenziata ad una cooperativa sociale del luogo che avrebbe così ottenuto 2 milioni di euro di ingiusto vantaggio patrimoniale, peculato con 2,4 milioni di euro di fondi distratti, più concussione, frode in pubbliche forniture, falso e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: triste quel paese in cui ha più spessore un signore chiamato U Curdu invece di, giusto per fare un esempio, un pescatore ambientalista e martire - perché campione di legalità - come il povero Vassallo; forse perché Angelo Vassallo - a differenza di U Curdu - non aveva la locandina del Che appesa alle sue spalle; e viene da chiedersi, se la democrazia è metodo, regole, rispetto della legalità, che democrazia è la nostra?), un muratore bergamasco muore al lavoro, in provincia di Piacenza, schiacciato da un blocco di cemento. A cui segue un breve comunicato della Furlan, l’Elton John della Cisl: “Tristezza e dolore per la morte orribile di un operaio edile a Piacenza”. Dolore preconfezionato peggio di un coccodrillo del giornalino della parrocchia.

E a proposito di scollegamenti, giusto un’altra considerazione sulla festa di Taranto, e riguarda Ilaria Cucchi: che c’entrava con la festa dei lavoratori? Ora, a Ilaria Cucchi e alla sua famiglia vogliamo (credo) tutti bene, perché sono un simbolo micidiale di resistenza e di ricerca della verità. Ma perché farsi usare a sproposito, rischiando di confondersi - questo è quello che succede nella comunicazione - con i testimonial di professione, tipo, che so, un Gerry Scotti o un Gianluigi Buffon, che una pubblicità non se la negano mai, e che praticamente hanno attraversato tutto lo scibile dei generi merceologici, dal riso alle assicurazioni, dalla bolletta elettrica allo sciampo? La sovraesposizione, a lungo andare, non fa mai bene a nessuno, buoni o cattivi. E invece? E invece, visto che era la festa dei lavoratori, sarei rimasto nel tema, magari invitando in collegamento un lavoratore atipico: quel giudice (donna) che fa finta di niente, malgrado le precarie condizioni di Stefano, fissa l'udienza con calma, un mese dopo, e nello stesso tempo conferma la custodia cautelare in quel luxury resort all inclusive di Regina Coeli.

Maggio voluto bene a me. E così, un primo maggio di festeggiamenti e propaganda all’insegna dell’autoreferenzialità e del narcisismo e dell’autostima da proscenio (siamo er mejo de er mejo). Ci pensavo mentre facevamo due passi in corso XXII marzo, la via che ricorda i moti popolari del 1848, le famose “cinque giornate di Milano” (che tempi, e che coraggio, quando i milanesi fecero il culo a Radetzky, quando i Martinitt facevano da staffette portaordini…). È una delle zone di Milano che preferisco, se non fosse che un po’ più distante c’è la zona dei fasci da sempre (ma tutte le famiglie hanno il loro parente scemo o deviato, c’è poco da fare). Mi piace anche perché sono strade "coraggiose", di un coraggio che unisce tutte le classi sociali, e che si chiamano, appunto, Pasquale Sottocorno o Luisa Battistotti Sassi, Ciro Menotti, Cinque giornate, piazza Risorgimento, Indipendenza, Bellotti (che un po' di cultura classica non guasta), Bixio, eccetera.

Comunque, guardavo i rider che in XXII marzo si barcamenavano scansando le rotaie del tram e che adesso sono soprattutto giovani africani, ultimi disgraziati da schiavizzare: no strike, no risk (per i padroncini, ovvio) E contavo i negozi aperti. Longoni, dove a volte compro il pane di tumminia quando mia moglie fa sciopero e non lo prepara infornandolo nel nostro modestissimo forno casalingo, ovviamente era chiuso. Invece era aperto l’OVS (acronimo di Organizzazione Vendite Speciali). Ma dico, neanche fosse un servizio pubblico essenziale, cosa c’è di speciale nel vendere due stracci il primo maggio? Dicono che questa è la Milano che non si ferma, quella della celebrata manifestazione di diversità che parte dalla Lega che ce l'aveva più duro per finire con Duracell dura di più. Quella della stampa reazionaria e del capitalismo familistico, del Corriere, già primatista nazionale dello sbatti il mostro in prima pagina (che poi passare da Valpreda alle moderne fake news è roba tutta in discesa, vedi Fubini), e della Confcommercio che tengono bordone al sindaco Sala, che sulle chiusure domenicali dice al ministro del Lavoro Di Maio, così ennuyant, ripetitivo e insistente sul riposo e sul diritto dei lavoratori a non essere sfruttati: “Le facessero ad Avellino, le chiusure nei festivi, qui a Milano non ci rompano le palle” (testuale, l’ex manager della Moratti ora nel ruolo di el grinta, durante un convegno in Bicocca). Con gente così, caro Luigino, e giusto per continuare coi francesismi, è peggio che pisciare nel violino (pisser dans un violon).



Niente di nuovo sul fronte accidentale.
(Marzo 2019) A Milano continuano i misteriosi incidenti nella Metro. Misteriosi, nel senso che in questi ultimi anni nessuno è riuscito a trovare la causa delle frenate e degli improvvisi blocchi che continuano a provocare decine e decine di feriti anche gravi tra i poveri passeggeri. Di meno misterioso, anzi piuttosto esplicito, c’è soltanto il notizione del sindaco Sala e del collega Granelli che hanno ventilato un aumento di oltre il 30 per cento del prezzo del biglietto ATM (già aumentato del 50 per cento dalla precedente giunta Pisapia in cui lo stesso Granelli era assessore). L’aumento servirebbe a ricucire un buco di bilancio del Comune (da notare che l’ATM, l’azienda dei trasporti milanesi, non è in sofferenza, anzi è stata risanata da tempo ed è in attivo; infatti quello che l'ha risanata, Bruno Rota, è stato sostituito). Su Facebook, il sindaco ha lanciato un messaggio disperato, cercando di far passare la favola secondo cui la colpa dell’aumento è del governo: “Milanesi aiutatemi”. Ma io credo che i milanesi, se lo vedessero affogare nel naviglio, non gli butterebbero neanche il salvagente a paperella. Del resto, che ti aspetti dal ricco che fa le veci dell’imperatore che ti tassa dicendoti pure “aiutatemi”: che dopo il biglietto ti portino via, come al villan di Dario Fo, pure la casa il cascinale la mucca il violino la scatola di scacchi la radio a transistor i dischi di Little Tony la moglie il figlio militare? E persino il purscel, forse.

Granelli era assessore, dal 2011, alla Sicurezza e Coesione sociale, Polizia locale, Protezione civile e Volontariato nella giunta guidata da Giuliano Pisapia. Con la giunta Sala, è assessore alla Mobilità e Ambiente. Calcolando che Milano è una delle città più inquinate d’Europa e uno dei territori comunali con più alta densità di cemento in Italia (per non parlare delle mediocri condizioni di molte strade), e tenendo conto della scia di feriti per gli incidenti nei trasporti, non c’è che dire: complimenti assessore.
Più di 60 feriti in un anno, passeggeri che volano dalle carrozze di coda a quelle di testa, inchieste in Procura, treni sequestrati, guasti a ripetizione, falle del sistema di segnalamento e dei semafori, frenate improvvise e inspiegabili. Eppure, intervistato, l’ineffabile Granelli (solo qualche mese fa, tramite il comico Corriere che gli tiene bordone, dava lezione alla giunta Raggi su come gestire strade e trasporti) archivia i drammatici eventi mettendoli nell’ambito dell’imprevedibilità: puro accidente. Ci ha colpiti in particolare una sua affermazione, al limite della “catalanata”: “Crediamo sia meglio avere un episodio di frenata o di rallentamento in più rispetto ad un incidente che porterebbe conseguenze più gravi”. Una linea di difesa che sconfina nel candore di un’ovvietà assoluta. E in attesa che il mago Silvan  - col suo leggendario sim Sala bin - sveli una volta per tutte il mistero, i milanesi si divertono, prima dell’elaborazione del lutto, a quella dell’ovvio: cioè sui nuovi proverbi e i modi di dire attribuiti all’assessore Granelli, di cui offriamo in esclusiva un piccolo assaggio.

1) Meglio un ferito grave che cento così così.

2) Meglio assolvere un treno che condannare un semaforo.

3) Meglio un arbitro con le corna che un assessore con l’aureola.

4) Meglio andare a piedi che male accompagnati.

5) Meglio tardi che la metro.

6) Paese che vai, Milano che resta.

7) Prima gli italiani. I milanesi poi.

8) È meglio smarrir la strada che la metropolitana.

9) Meglio andare a letto senza cena che prendere la metro a colazione.

10) Chi si siede è perduto, chi sta in piedi non è che gli vada meglio.

11) Chi si accomoda peggio per lui.

12) Meglio un tram lontano che una metro vicina.

13) Il miglio è nemico del chilometro.

14) Meglio una fermata che una a piede libero.

15) Meglio un binario morto in casa che un Pisano all’uscio.

16) Meglio una fermata vicina, soprattutto se è gentile così le lasci il gatto nel weekend.

17) Se vi capita di dormire alla fermata, pensate anche voi che si stava sveglio quando si stava peggio?

18) Usate sempre delle precauzioni: chi viaggia senza biglietto rischia di restare incinta.

19) Gli adolescenti invece diventano ciechi, oppure se va bene porteranno gli occhiali per tutta la vita.

20) Quelli che il tornello è un vino da tavola in tetrapak, oh yeah.

21) Quattro occhi vedono meglio di un semaforo.

22) Meglio la scala mobile che l’indennità di contingenza.

23) Meglio salire che scendere a patti.

24) È meglio spendere i soldi dal macellaio che buttarli dal finestrino.

25) Meglio un lontano cugino che un prossimo treno.

26) Hai perso un appuntamento? Non te la prendere: l’importante è credere di partecipare.

27) Il salto della coda prima o poi diventerà una disciplina olimpionica.

28) Te la prendi tanto per un piccolo rallentamento? Ma cos’è questa fretta, nessuno ti corre dietro.

29) Non correre, pensa Hanoi invece di Saigon.

30) Meglio un monopattino che un binario.

31) Meglio i binari che i numeri decimali.

32) Meglio binario di ferro che tetraossosolfato di rame. Per non parlare dello zinco.


Genova per noi (che stiamo in fondo alla pianura).

(8 marzo 2019, festa della donna) Ho sempre pensato al sindaco di Milano Giuseppe Sala come a una persona che a volte si sforza di apparire simpatica (e probabilmente lo è), ma anche furba: il tipo “qui lo dico e qui lo nego”. Perché è un manager; e, in quanto manager, sa come ci si tiene su. Così l’abbiamo visto prima al servizio della destra con la Moratti, e poi scelto da Renzi e al servizio di quello che restava della sinistra. E adesso? Adesso è nel periodo “quatto quatto zitto zitto” (che, grosso modo, potrebbe corrispondere al periodo rosa di Picasso, quando, malgrado la cronica carenza di soldi e lo stato di indigenza, quello fu per Picasso un periodo comunque felice). Cronica carenza di soldi ma felicità per tutti, forse, come nel caso dell’incredibile ingresso dell’Arabia Saudita * - un paese che non ha alcun rispetto dei diritti fondamentali, per non dire altro - nel Cda della Scala, di cui lui è presidente. Lui dice che "non" sapeva. Però, quando scoppia la polemica, Repubblica scrive che “il sindaco aveva raccomandato silenzio sulla delicata questione del finanziamento arabo da 15 milioni di euro”. Sapevano tutti, eccetto i milanesi, su cui incombe sempre il famoso ombrello di Altan

Però, se lo inquadriamo meglio in questa nuova Cartoonia del PD che è diventata Milano, allora mi viene in mente un fumetto, Pedrito el Drito, la cui principale aspirazione è quella di passare per un uomo tranquillo che gioca a scopone e beve un goccio di barbera al saloon di Tapioka City (tanto ci pensa la moglie Pasquita a menare gli importuni e i malfattori). Così l’abbiamo visto l’altro giorno, il sindaco Sala, sereno e sorridente, alla marcia contro il razzismo sfociata in piazza Duomo e che ha fatto tanta audience a reti unificate (gli organizzatori si sono fatti trasportare dall’entusiasmo e hanno detto “siamo in 200.000”; ma per chi è aduso alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, è uno scherzo moltiplicare 20.000 persone - piazza Duomo ne contiene 25.000 - e arrivare a 200.000 partecipanti). Si è fatto vedere giusto in tempo per mettersi davanti ai fotografi tra quattro bambini che tenevano uno striscione, e per fare qualche selfie veloce con gli Schuhnagelmagensteptanztruppe, mitico gruppo di ballo etnico di Tapioka City.

Era la terza marcia per l’accoglienza - chiamata “People” perché la capisse anche Beppe Severgnini e la mitica “generazione Erasmus” - promossa da Majorino, assessore per le politiche sociali e i diritti; che, appunto alla terza, ha francamente segato i cabesisi, come dicono i milanesi quando perdono la pazienza e non vedono l’ora di bestemmiare esponendo il proprio patrimonio linguistico che si estende dalle Alpi alle piramidi, dal Manzanarre al Ficarazzi. Anche perché: tutto facile quando vai a braccetto con quelli dell’8xmille, gli antifascisti del sabato mattina e i partigiani della domenica, gli umarell e le macerie dei sindacati, i professionisti della questua, le ong, i vescovi e i cardinali; più difficile, se vai allo scontro e provi a ripulire Milano dalla materia sedimentosa che ha sepolto altri diritti, non meno importanti. Per esempio, nella sanità modellata sul sistema Formigoni. Per esempio, il presidente di una milanesissima fondazione Pubblicità Progresso che dovrebbe occuparsi, appunto, di diritti, e che invece strepita contro le “checche”. Per esempio, il diritto delle donne e degli uomini di decidere per se stessi. Di cui, a Majorino e agli altri cuor di pecora della sua specie, non gliene può fregare niente, figurati se gli dedica qualche marcetta.

Dicevamo: e a Genova? A Genova escono con questa comunicazione semplice, netta, immediata, esplicita, efficace.


Milano, invece, è afasica, seriamente lesionata, se si escludono voci nel deserto come quella di Alessandra Kustermann, primario di ginecologia della Mangiagalli (l’ultimo candidato forse di sinistra a cui io abbia dato il mio voto e poi basta, concludendo decenni di onorato servizio dalla parte del torto). La comunicazione è quella che si trova ogni tanto sui muri, qualche messaggino triste e solitario. Come questo stencil che ho trovato davanti a un’altra clinica milanese per le donne. Resiste da un paio di anni, in attesa che lì davanti passi qualche pro life, qualche ministro Fontana, qualche leghista e/o ciellino, qualche piddino ipercattolico all'anagrafe, qualche ordine nuovo, qualche invasato con olio di ricino, secchio e ramazza. Parola d’ordine: ghe pensi mi. Sarà lo slogan vincente dei successori certi dell’attuale giunta concentrata soprattutto sul cemento, che per dimostrarsi “di sinistra” twitta pro Mahmood durante il festival di Sanremo e organizza ogni tanto qualche marcetta all inclusive? Lo slogan di quella destra becera e devastante a cui Sala e compagnia stanno spalancando, non sappiamo se più o meno consapevolmente, la porta d’ingresso di palazzo Marino?


* Obblighi delle donne in Arabia Saudita (dal quotidiano cattolico Avvenire).

Tutela maschile. La donna saudita è sottoposta alla tutela di un parente maschio (mahram, in arabo) che può essere suo padre, marito, fratello o figlio. Una custodia permanente, anche in caso di violenza domestica. Il tutore non provvede alle necessità della donna, ma le limita, impedendone qualsiasi forma di emancipazione: non può viaggiare, sposarsi, lavorare o accedere all’assistenza sanitaria senza il suo permesso. Nel caso di matrimonio con uno straniero, le donne devono inoltre chiedere l’approvazione del ministro dell’Interno.

Vestiario. La scelta del guardaroba è molto limitata per le donne saudite, che devono indossare sempre l’abaya, un lungo vestito che arriva fino ai piedi, oltre al velo islamico (di cui parla il Corano). Negli anni, è stato concesso solo un minimo margine di libertà sul colore.

In tribunale. Richiamando alcune norme coraniche, la testimonianza offerta in sede giudiziaria da una donna vale la metà di quella di un uomo. Lo stesso vale per l’eredità che tocca a una donna, dimezzata rispetto all’uomo. Eppure Riad è stata eletta nel 2017 membro della “Commissione Onu sulla condizione delle donne” che ha come compito «la promozione della parità tra i sessi e dell’autonomia delle donne». «È come nominare un piromane a capo dei pompieri», aveva commentato il presidente di “Un Watch”.

Spazi separati. Nel Regno rimangono in vigore norme volte a garantire la completa separazione tra i sessi, a partire dai banchi di scuola. Gli spazi pubblici – come i ristoranti – sono divisi in una sezione dedicata alle “famiglie” a cui possono accedere le donne e una per i soli uomini. Le occasioni in cui le donne possono interagire con uomini diversi dai membri della loro famiglia sono rare. A un recente dibattito sul femminismo svoltosi nella provincia di al-Qassim, gli uomini erano seduti una sala, le donne in un’altra.

Senza diritti. Il Consiglio consultivo (Majlis al-Shura), nominato dal re, fino al 2013 era composto solo da uomini. Dal 2013 siedono nel Consiglio anche trenta donne, il restante 80 per cento è composto da uomini. Alle 30 donne è stato comunque imposto il rispetto delle regole della sharia, compreso il velo, e l’obbligo di sedersi in posti riservati, ai quali possono accedere solo da un’entrata speciale.

Alla fine, due settimane dopo la festa della donna, cda e sindaco (anche se, da buon manager lungimirante che non considera le differenze, dichiara che "la Scala ha sempre parlato con tutti i Paesi del mondo, e noi non abbiamo preclusioni verso i sauditi") stoppano gli arabi e azzerano la trattativa. Con un bel sospiro di sollievo di tutti, forse anche del sindaco che qualcuno aveva già soprannominato, con buona dose di cattiveria, Beppe El Salah.

Ma, in ogni caso, ci resta una curiosità: in un rinnovato Cda della Scala, cioè di uno dei più noti e affascinanti simboli di Milano - in cui si ventilava un ingresso dei sauditi non contrastato immediatamente dal sindaco, dall’ineffabile ministro per i Beni e le attività culturali Bonisoli (direttore per qualche anno della NABA, istituzione privata e modaiola della Milano più ricca che spasima all'idea di avere un figlio stilista o designer, trombato alle elezioni e non eletto, ma ripescato da un insipiente Di Maio, che, tra lui e il Bonisoli, difficile immaginare chi capisca la differenza tra una trabeazione dorica e una scatola di friskies) e dai ruvidi leghisti - erano previste le quote rosa?


Scurdammoce 'a passata.

(2 marzo 2019) Da non perdere l’intervista del Corriere al fratello di Montalbano e pronipote di Camilleri, il dimenticabile governatore della regione Lazio Nicola Zingaretti. Soprattutto quando auspica la "deflagrazione" dei 5 Stelle (che in realtà, al momento, sono l'unico vero argine alla destra più becera, al partito transregionale degli affari e alle frattaglie maleodoranti del berlusconismo), dicendo che siamo (grazie ai suoi straordinari poteri di sismologo?) alla vigilia di “un sommovimento della geografia politica italiana” e dell’avvento di un campo magnetico democratico con tante forze moderate e “nobilmente conservatrici”. Non so se quella del “nobile” conservatore sia una categoria esistente in natura (a meno che non ci si riferisca alle parti “nobili” della carne bovina, tipo il filetto). Però questa espressione dal tono vagamente antifrastico potrebbe diventare lo slogan vincente del “nobile” conservatore e probabilmente futuro segretario del PD, che ricorda tanto una famosa passata (rossa, ça va sans dire) di pomodoro: come natura crea, Zingaretti conserva.


Aggiornamento del giorno dopo. E così ci sono state le primarie del PD per la scelta del nuovo segretario. Com’è andata, lo sapevamo tutti: vince Nicola Zingaretti, che, appena eletto, esordisce con una serie di perle degne della sua licenza di terza media: “A me hanno imparato”. “Quello che chiediamo è che i bandi non si interrompino”. In confronto, Luigi Di Maio è il capo per acclamazione dell'intera Accademia della Crusca compresi pericarpo e tegumenti esterni. Ma questa forse è la nuova rivoluzione culturale della new old left già inaugurata da Landini nella trasmissione di quell’altro laureato alla Sorbona di Formigli, quando aveva inanellato una serie micidiale di “vadivadivadivadi”.

E così il nuovo segretario del PD entra in aperta concorrenza con i più noti vocabolari della lingua italiana tipo il Sabatini Coletti, il Devoto Oli, il piccolo Palazzi, il dizionario Battaglia, ecc. Infatti i ragazzini della quinta lo stanno già prenotando per la prima media: "Che ce lo vende lo Zingaretti?" "E certo che sì, è proprio er mejo: oltre 45.000 locuzioni e frasi idiomatiche, oltre 9300 sinonimi, 2000 contrari e 2500 analoghi, 145.000 voci, oltre 380.000 significati fra cui circa 1000 nuove parole o nuovi significati come daje zì, aridaje, eddaje no, daje daje, daje tutti, e inoltre più di 12.000 citazioni letterarie di 133 autori, da Oscar Farinetti a Jole Santelli, da Pina Picierno a Carmelo Briguglio... Anvedi sì cche robba!".

E comunque. Gongola il fratello di Montalbano, e gongola il PD, neanche avessero vinto le elezioni che non avevano vinto il 4 marzo: “Da qui inizia il cambiamento”, dice cancellando con mezzo giro di manovella tutte le vergogne del passato. “Una partecipazione così ampia nella scelta di un gruppo dirigente e di un segretario non ha eguali in nessun partito in questo Paese”, dice el lìder anonimo Orfini. Partecipazione ampia? E come no. Andate a vedervi il servizio micidiale di Fanpage a Milano (capitale morale, forse, ma non proprio rigorosa): il regolamento delle primarie del Pd vieta, ovviamente, di votare più di una volta, ma la disinvolta (e bravissima) collaboratrice di Fanpage ha votato 11 volte nel giro di due ore, anche nello stesso seggio, Che cosa significa? Che Orfini, Zingaretti e compagnia bella hanno detto che alle primarie hanno partecipato 1.600.000 persone. Ma se dividiamo questo numero per 11, otteniamo 145.454 partecipanti al voto. Cioè, in teoria, potrebbero aver votato, non un milione e seicentomila, ma appena più di 100 mila persone. Un po' come in quelle parate militari sudamericane in cui, per fare scena e numero, gli stessi soldati ripetono il giro del quartiere 200 volte.


Prima gl'itagliani!

(Febbraio 2019) Pensavo ai titoli esaltati della intensa propaganda milanese: “Milano è l’unica realtà internazionale del Paese” (Il Sole 24 Ore). “Milano è una città a vocazione internazionale proiettata nel futuro” (Cisl). “Milano è la città più cool d’Italia” (attribuita al WSJ). “Milano è una città internazionale” (Comune di Milano). Ci pensavo mentre ho notato questa scritta in inglese maccheronico (CASA PAUND, con la A) sul muro di alcuni uffici dell’ex Provincia. Proprio internazionale, Milano. Proprio cool. Però, non so a voi, ma a noi, più che un'imitazione malriuscita di New York, questa Milano sembra un'imitazione perfettamente riuscita di Buccinasco. (Se qualcuno crede che la battuta assomigli a una battuta di Giuseppe Genna, non ha torto).



What'd I say.

(Febbraio 2019) Da “capitale dell’inclusione e della tolleranza” (secondo la favolistica narrazione del sindaco Sala e del suo ridicolo brand Yes Milano), a capitale della maleducazione. Per fortuna c’è una puntuale attività nei social e il frenetico passaparola dei video che ogni tanto provano a demistificare certi nuovi luoghi comuni con annessi falsi valori. Per esempio, l’altro giorno circolava, dai social ai siti dei giornali cartacei, un video di una perbenista milanese che maltrattava una signora straniera colpevole di aver portato nel bus il passeggino e i figli. Nel video girato alla fermata, non si capiva proprio tutto; ma quel che ha fatto la signora coadiuvata da altri passeggeri (le sberle) e quello che ha detto (“scendi subito cretina, non farmi girare i coglioni”) lo abbiamo capito tutti.

Ora, tra una week e l’altra, e in una città che è tutto meno che felix, e perché tra il dire di Milano e il fare della sua amministrazione c’è il mondo reale, è possibile che a nessuno venga in mente di celebrare semplicemente il ritorno al sorriso, senza grande spesa, senza vip e pompa magna, senza lussuose cene di beneficienza a cura di “oligarchie senza frontiere”, senza pagare l’obolo ai presunti guru del marketing, diciamo soltanto con un piccolo sforzo? Per esempio, come hanno fatto in Australia nei trasporti pubblici. In modo che i milanesi scoprano, finalmente, che “salutare” non è soltanto una seduta al Virgin Active di corso Como, ma dirsi anche un semplice “buongiorno”.



Bella versione di What'd I say, bella anche perché c’era un giovane (22 anni, ma lui era un prodigio dalla nascita, a 10 anni suonava con Mahalia Jackson e a 11 con Nat King Cole) Billy Preston all’organo. Era il 1968: l’anno seguente, sempre Preston era presente, alle tastiere, nell’iconico concerto sul terrazzo degli uffici della Apple (l’etichetta dei Beatles) in Savile Row, di cui proprio in questi giorni, a cinquant’anni dall’avvenimento, si è celebrato il ricordo.


Romanzo (breve) popolare.

Lui lavorava nelle forze dell'ordine.
Lei di mestiere faceva la sciupatrice.
Il figlio era ancora adolescente, perciò era piuttosto attendista e si limitava a seguire l'evolversi della situazione.

Politically correct.

(Gennaio 2019) A proposito di categorizzazioni, in questo caso canine: sarà ancora appropriato il termine "razza", invece, che so, di "etnia"?


E sempre a proposito. Molti sanno che Londra, più di altre città, porta all’estremo tutto ciò che è political correctness. Per esempio, la società Transport for London ha deciso di eliminare dagli annunci nella metropolitana la frase “Good morning ladies and gentlemen”, sostituendola con il più neutro e inclusivo “Hello everyone”, per far sì che ogni passeggero si senta benvenuto a bordo. Decisione apprezzata da molti londinesi, per esempio dal gruppo di difesa dei diritti LGBT Stonewall, che ha  dichiarato: “Il linguaggio è estremamente importante per la comunità lesbica, gay, bisessuale e trans, e il modo in cui lo utilizziamo può contribuire a garantire che tutti si sentano inclusi”.

Come si sa, Milano cerca di rincorrere, appena può, Londra, anche se il più delle volte non ci riesce: come quando intitola le sue manifestazioni, dimostrando di non avere nessun senso del ridicolo, sotto l'ombrello del payoff Yes Milano; oppure quando il presidente della fondazione milanese Pubblicità Progresso (sic) definisce "checche" due giurati del programma Rai Ballando con le stelle e "lobby rumorosa" il mondo dei diritti Lgbt. Perciò, non solo ha raccolto il guanto di sfida, ma è andata oltre. Pare infatti che l’assessore alle Politiche sociali e ai Diritti Pierfrancesco Majorino (che campa di pane e politica, praticamente, da quando è nato, e recente organizzatore di marcette pro immigrati e déjeuner sur l'herbe multietnici), mentre è impegnato nella ricerca di una comunicazione che rifletta la presunta diversità di Milano e che sia veramente inclusiva per tutti i passeggeri, per esempio anche per quelli che non raggiungono l’altezza minima nei concorsi delle forse armate (1,65 centimetri per gli uomini e 1,61 per le donne), stia pensando di cambiare nome alla Metro di Milano: la chiamerà Centimetro.



La cosa.

(Settembre 2018) È morta Inge Feltrinelli. Probabilmente dalle risate, dopo aver appreso che la sua casa editrice avrebbe inaugurato una nuova collana umoristica pubblicando un libro di Carlo Calenda, intitolato “Orizzonti selvaggi”. Proprio lui, “lo spermatozoo d’oro” (Fulvio Abbate) della Roma pariolina dei cinematografari. E che adesso, forse ispirandosi all’ambiguità ideologica del film di John Ford (Sentieri selvaggi), ha pensato bene, in vista delle elezioni europee, di lanciare un manifesto e un programma da “tutti dentro”, con uno slogan accattivante che indica i sentieri della salvezza: Monta quassù che vedi Roma! Un “fronte repubblicano” di èlite (per esempio lui: affascinato, più che dall’ego, dal se medesimo), col PD più abbiente, un “pezzo della sinistra” (non tutta, ci mancherebbe), la Pinotti, Pisapia e Pizzarotti, qualche liberale ancient e patrizio, con dentro Gentiloni, magari anche la Madia e la Boschi, la rava e la fava, e tutti i campioni di una classe politica il cui percorso rigorosamente meritocratico in Ferrari, dall’infanzia, all’adolescenza, alla maturità, si può sintetizzare con un’espressione cara all’Osteria da Cencio: che bbùscio de culo!

Pisapia? Lo ricordiamo bene quel 2011. Quando ci ritrovammo a cena con amici, a tre mesi dalle elezioni del sindaco, e già ci chiedevamo: ma cosa abbiamo votato? E notate bene: “cosa”, non chi. Certo, un fronte così insipido non s’era mai visto. Neanche nelle sbobbe del rancio in caserma, che, mescola e rimescola, non sai mai cosa ci cade dentro.

Riusciranno Calenda, Pisapia, e pure che ci siamo John Wayne, a domare gli orizzonti selvaggi, a selezionare e salvare er mejo del genere umano e a dargli una casa? Una casa, o forse una cassa, cioè una degna sepoltura, che sarebbe la cosa più prevedibile. Come in tutti quei film-favola di cui, solo dal nome degli attori, si conosce già il finale.

 

Noi e gli altri.


(28 agosto 2018) La canzone del video qui sopra racconta la storia di un uomo che si sposa in Mali e sogna di volare via in "paradiso" con sua moglie, in Francia. Cerca di ottenere un visto per andare a lavorare lì. Troppi aspettano in coda per ottenere il visto (si notano le parole "forse", "attesa" e "speranza" scritte sui loro corpi), e la maggior parte delle richieste viene rifiutata. Affranto e disperato, il giovane maliano consulta persino uno stregone e le sue conchiglie per sapere se riuscirà a intraprendere il viaggio. Così decide di lasciare la moglie e il suo paese attraversando il confine da solo e senza documenti. Alla fine del video, si vede che viene arrestato da agenti di polizia francesi dopo che gli chiedono quei documenti che non era riuscito ad ottenere. La canzone è Senegal Fast Food di Manu Chao, Amadou & Mariam. È di dieci (forse quindici) anni fa, mi piaceva (infatti è da anni nella playlist preferita del mio vecchio iPod) e mi viene in mente ogni volta che compro del pesce a Milano e mi dicono che "viene dall'Atlantico"; ma non è che le cose siano cambiate, nel frattempo: soltanto di recente si è scoperto che i francesi si liberavano dei migranti, respingendoli con violenza alla frontiera di Ventimiglia, o deportandoli - compresi i minori - nei boschi italiani. E a proposito di pesca, di Senegal fast food, dell'area marina più pescosa dell'Africa occidentale e delle sue riserve ittiche saccheggiate da pescherecci provenienti da Cina, Russia, Corea, Islanda, ma soprattutto da Spagna, Francia e altri Paesi Ue, ricordo una lettura interessante, giusto uno spunto per informarsi di più e meglio.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2013/03/02/mafia-della-pesca-e-voracita-europea-senegal-rischia-crisi-alimentare/517945/

E a proposito di noi e gli altri, per chi ha voglia di deprimersi con un video meno datato, c'è una canzone bella ma tristissima (depressione puerperale?) di Alela Diane, è recente e si intitola Émigré, e si riferisce alla tragedia dei migranti siriani, allo strazio delle madri che hanno perso i figli nella tempesta.


Seabirds fly the salty wind
East to South, North to West
See us go, as they go, across the borderlines

I can feel the fear hang heavy on the water
Glinting sharply with the pale moonlight
Mothers hold on tightly to your children
The waves are breaking violently tonight

Seabirds fly the salty wind
East to South, North to West
Can we go, as they go, across the borderlines?

I hear yelling, I hear crying, I hear praying
As the ocean threatens us on all four sides
The water rises deeper every minute
This vessel cannot bear the burden of our load

Seabirds fly the salty wind
East to South, North to West
Can we go, as they go, across the borderlines?

One by one the children have grown silent
From their mother’s arms, they float away
The roaring sea will wash our quiet bodies
Upon the foreign shore, but our souls will find a way

And with seabirds fly the salty wind
East to South, North to West
See us go, as they go, across the borderlines

Poi, quelli che dicono "aiutiamoli a casa loro", andrebbero anche tranquillizzati: molti si aiutano già benissimo da soli. Vedi Falz (Folarin Falana): "There is a dire need for us to redefine the concept of humanity and morality. There is a pressing need for re-education and re-orientation of the people. For this is the only way we can restore sanity".




LOL.

(17 agosto 2018) È morto Claudio Lolli. Era nato a Bologna e aveva scritto “Ho visto anche degli zingari felici”. Se fosse nato a Milano, forse avrebbe scritto “Non ci crederete, ma ho visto anche degli umani parlare con i cani” (e disposti a giurare e spergiurare che i cani gli rispondono, del tipo: “Che dici, Daisy, se stasera andiamo al ristorante?”. “Mi piacerebbe da morire, padrone, ma stasera ho una terribile emicrania”).

P.S. Diciamo la verità: Lolli metteva anche un po’ di tristezza, no? Forse, se si fosse chiamato Claudio Lol (nel senso di “laughing of loud”) le cose avrebbero preso un’altra piega, chissà. E comunque, a scanso di equivoci: è anche dopo aver sentito la canzone di Lolli, che da giovane, ventenne, andavo a Lei Santei Marias de la Mar (Saintes-Maries-de-la-Mer, dove c’è la statua di Sara la Nera venerata dalla comunità gitana che lì fa anche una grande festa verso fine maggio, dopo il rito di purificazione collettiva) per vedere se:

Ma ho visto anche degli zingari felici
Corrersi dietro, far l'amore
E rotolarsi per terra,
Ho visto anche degli zingari felici
In Piazza Maggiore
Ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.


Quando dare dello zingaro a uno zingaro non era reato, e gli zingari mi mettevano allegria sin da quando ero bambino proprio perché erano zingari. Certo, altri tempi: tra quelle donne colorate e festose (Chi del gitano i giorni abbella? La zingarella!) e gli uomini con la fisarmonica e il pappagallino, e quelli che poi ho trovato a Corvetto nei miei anni da single, c’è una certa differenza, ma non stiamo a sottilizzare. Io, comunque, la notte in Camargue dormivo tranquillo nelle spiagge di Lei Santei Marias, e la foto (in realtà era una diapositiva) è stata scattata allora, almeno quarant’anni fa.




Milano casciaball, però al top.

“Milano è un top di gamma, come si dice per le fuoriserie. L’attrattività di Milano (…) è amplificata dalla scelta di tanti grandi marchi, da Apple a Ibm a Microsoft a Deloitte, di concentrare qui il loro quartier generale europeo”. (Giangiacomo Schiavi, Corriere della Sera)

OK signor Giangiacomo, va bene, però vada a dirlo anche a Apple, Ibm, Microsoft e Deloitte. Perché loro ancora non lo sanno, che qui hanno il loro "quartier generale europeo". Chissà che bella sorpresa.




Cazzulli, cazzilli, crocchè, arancini, pastacresciute, panelle, scagliozzi, sciurilli e supplì.

(Luglio 2018) Aldo Cazzullo e il Corriere della Sera scrivono il solito pastone contro Roma e Virginia Raggi (certo, indirettamente, ma ‘ccà nisciuno è fesso), però sbagliano ingredienti e il fritto misto sa subito di rancido. Approfittando della morte di Alessandro Narducci, giovane chef stellato investito da una Mercedes mentre circolava a Roma sulla sua moto, il giornalista fa capire che la causa dell’incidente sono le buche e il manto stradale (ma il povero Narducci non è stato investito?). “Roma è la città europea in cui si muore di più per strada. Il motivo è semplice: un manto stradale a pezzi, segnato da buche pericolosissime”. “In questi anni centinaia di ragazzi romani sono morti nell’indifferenza generale”. Così scrive Cazzullo nel suo crescendo parossistico. Morti sulla strada e buche.

Dopo due giorni, si scopre che l’investitore, secondo un testimone, stava probabilmente al telefonino. L'investitore era al telefono.


Ora, guardate la buca della foto. È da mesi che devo ricordarmi di scansarla con la bici; stessa cosa nelle altre decine di strade milanesi che frequento ogni settimana e che sono nelle stesse, schifose condizioni. Soltanto che il Corriere non gli dedica la prima pagina, né Sky i titoli strillati in apertura del tiggì, né le anchor women di La7 della serie “donne che odiano la Raggi”. E così Roma ha i suoi fori imperiali, ma noi abbiamo dei fori della madonna, però guai a dirlo.

Ma è proprio il caso di rimpallarsi certi primati come dei becchini che giocano a bestia o a pinella? Perché allora ci sarebbe da fare qualche precisazione, basandosi sui fatti.

1) La provincia di Roma è quella che ha il parco veicolare più grande (quattro milioni di veicoli). In questi giorni diversi giornali (i soliti giornali dei soliti editori con i soliti giornalisti) battono la grancassa sulla vicenda di Elena, una povera ragazza che è morta in maggio, con la sua moto, sull'asfalto dell'Ostiense (pare che la ragazza non andasse veloce). A distanza di un mese, i giornali, quelli che non riusciranno neanche in un'altra vita a elaborare il lutto per la vittoria del Movimento 5 Stelle a Roma, riportano la lettera "commovente" della madre pubblicata su Facebook, che dà la colpa dell'incidente - avvenuto, a dire il vero, in una via extraurbana - alle famose buche di Roma (prendendosela ovviamente con Beppe Grillo), e scrivono con accenni strappalacrime della "ragazza col motorino". Per curiosità vado a cercare notizie sul "motorino" e scopro che era una Honda Hornet 600: una bestia da due quintali, potenza 89,5 CV, velocità 217,5 km/h (dipende dai modelli, arriva anche a 240), accelerazione di tutto rispetto: in 4,4 secondi vai da 0 a 100 km/h, e questo è il dato più importante, quello che dovrebbe preoccupare tutte le mamme, ma prima che i figli vadano a schiantarsi, non dopo. Su Youtube si trovano molti esempi, come quello che pubblico qui di seguito. Ma c'è anche un dato importante su cui sarebbe opportuno riflettere: nelle statistiche diffuse dall'Istat leggo che l'aumento delle vittime di incidenti stradali riguarda in particolar modo, non i ciclomotoristi, i ciclisti o gli automobilisti, ma i pedoni (+4,1%) e soprattutto, guarda caso, i motociclisti (+9,8%). Perché? Non lo so. Mio padre era un concessionario di auto, perciò ho imparato a guidare quando andavo alle scuole medie, non amo le moto e, da quando vivo a Milano, non amo neanche le auto: sono l'ultimo in grado di dare una risposta obiettiva.



2) I giornali riportano molte notizie artatamente casuali su Roma, si scrive a casaccio di 50 morti qui, di 88 morti là, tutti per colpa delle famose buche, ma mai che venga rivelata la fonte. Noi ne abbiamo trovata una, nel sito del Ministero dell'Interno, pubblicata il 27 giugno 2018. "Secondo i dati provvisori forniti dall’Istat, per l’anno 2017, nella provincia di Roma sono stati registrati 15.922 incidenti stradali con 215 vittime e 21.293 feriti; tali dati rappresentano una significativa diminuzione del fenomeno rispetto al 2016. In particolare, nel comune di Roma, nell’anno di riferimento, si sono verificati 12.885 incidenti stradali che hanno causato 129 morti e 16.812 feriti, con una diminuzione delle vittime pari al 7,9% rispetto al 2016". E a Milano? E in Lombardia? Tra le regioni italiane (dati, se non ricordo male, relativi al 2016, ma è difficile trovare statistiche serie aggiornate all'ultimo anno, per esempio quelle dell'Istat, che mi sembrano attendibili), il primato della mortalità su strada spetta alla Lombardia (447 vittime, di cui un decimo nel solo comune di Milano). La Lombardia è maglia nera nella sicurezza stradale, con numeri in drammatica crescita, a partire dalla densità degli incidenti: 1,35 ogni chilometro contro una media nazionale di 0,67. Il doppio che nel resto dell’Italia.

3) È corretto calcolare i morti come indice di sfiga? Oppure è più opportuno calcolare il numero di incidenti? Perché, uno che finisce nella sedia a rotelle, come lo chiami: vivo? morto? più morto che vivo? E qui ti crollano tutti i Cazzulli del mondo, perché, c’è da non crederci, è Milano quella che ha più incidenti. La Tangenziale Est di Milano — nel tratto compreso tra i chilometri 10 e 12 — è la strada italiana dove si verificano più incidenti. Cioè siamo maglia nera nella sicurezza stradale.

4) Colpa delle buche? Bisogna essere proprio una faccia di emmental per pensare che il problema sia quello. Le statistiche dimostrano che il problema sta nella guida distratta, il mancato rispetto della precedenza e la velocità troppo elevata (41,5% dei casi), poi ci sarebbe l'uso di sostanze stupefacenti e tante altre belle cose (si fa per dire). Le violazioni al codice della strada più sanzionate risultano, infatti, l'eccesso di velocità, il mancato utilizzo di dispositivi di sicurezza, l'uso del telefono cellulare alla guida. Ma questo lo constatiamo direttamente, senza bisogno dei suggerimenti interessati e delle statistiche degli altri, ogni santo giorno. Il problema riguarda tutto il nostro Paese, dove si guida in modo irresponsabile. Un esempio di come viene giudicata, all'estero, l'Italia? Le notizie per i viaggiatori americani fornite dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d'America. Ho tradotto di corsa, ma il testo originale è linkato alla fine.

Guidare in Italia può essere stressante. Spesso, le leggi sul traffico non sono rispettate o applicate. Per vigilare meglio, si fa un ampio uso di telecamere, ma l'applicazione da parte dei funzionari del traffico locale è limitata e incoerente. Scooter e motocicli non seguono spesso le regole della strada e notoriamente utilizzano i marciapiedi per aggirare i veicoli ai semafori e nel traffico. I conducenti devono guidare in modo difensivo ed essere pronti a frenare rapidamente ed evitare scooter e altre auto che possono tagliare la strada o invadere la vostra corsia. I pedoni attraversano spesso la strada al di fuori delle strisce. Safety situation.

5) E sempre riguardo alle notizie e ai consigli del Dipartimento (riferimento: vedi il link dell'Overseas Security Advisory Council), evidentemente il Segretario di Stato americano Mike Pompeo (ex capo della Cia, mica un imbecille più o meno colpevolmente disinformato) è molto meno preoccupato di un Goffredo Buccini, di un Damilano, un Cazzullo, un Giannini, un Sergio Rizzo, una Sky, una Rai o una La7 qualunque, se fa scrivere senza toni da tragedia, anzi tutto sommato bene, delle strade e dei trasporti a Roma, senza farsi condizionare dai racconti raccapriccianti di un'informazione italiana che fa male soprattutto a se stessa descrivendo la "città eterna" come il buco più putrido del mondo:

The public transportation system (trains, metro, trams, and buses) in Rome is modern, extensive, and accepted means of travel. Public transportation or taxis are recommended for anyone inexperienced in driving in Rome.

Road conditions in Rome meet U.S standards. Roads are well maintained, and extensive lighting exists.




6) La bici, da molti anni, è il mio principale mezzo di locomozione. Circolare a Milano con la bici è, spesso, una scommessa persa, non solo per il manto stradale destrutturato (per dirla alla Armani) o nella tradizione mediterranea (per dirla alla Dolce e Gabbana) di una crosta di fresella. Le piste ciclabili sono dei tratti casuali, non c’è un percorso che sia un vero percorso. E intanto te la devi cavare tra auto e camion che ti sfiorano in media a 70 l’ora e moto che ti tagliano la strada, slalom tra portiere che si spalancano improvvisamente (e guai a protestare, finisce sempre in litigio), pedoni e cani che ti si parano davanti nella pista ciclabile o che attraversano le strade col rosso, auto di traverso o in doppia fila, che a Milano sono molto tollerate perché il settore auto in Italia vale l'11% del Pil, di conseguenza le doppie file vanno salvaguardate e moltiplicate, perciò meglio se triple, perché a Milano siamo notoriamente tutti al top. Di recente, un amico che fa ogni giorno 21 km di andata in bici e 21 di ritorno dal posto di lavoro (una delle nostre più importanti aziende tecnologiche, colosso internazionale dei microchip e di tecnologie che troviamo ogni giorno nei nostri iPhone o nella nostra auto, e una delle poche che promuovono tra i dipendenti la mobilità sostenibile e ciclista coniugando green e hi-tech) è stato investito da un’auto: due mesi per riprendersi, con qualche fastidioso strascico. Ecco, questo è il mio sentimento ogni volta che scendo dalla mia vecchia, milanesissima Rossignoli: mi è andata bene. E se andasse male? Per favore, niente fiori ma opere di bene: per esempio, il sellino che mi hanno rubato dalla bici parcheggiata in strada la settimana scorsa.

A proposito di furti, per tutti quelli che se la menano col “modello Milano”: Milano è capitale del crimine, al primo posto con 237.365 reati commessi nel 2016; considerando l’incidenza del numero dei reati in rapporto alla popolazione, Milano è saldamente in vetta alla classifica, con 7,4 reati denunciati ogni 100 abitanti, seguita da Rimini (7,2), Bologna (6,6), Torino e Prato (entrambe con 6 reati ogni 100 abitanti). E Roma? Sta bene, grazie. Ma non ditelo alla Gruber, se no le viene un coccolone e comincia a bestemmiare in südtiroulerisch.


Il caldo non uccide d’estate. Ma non fa neanche bene.

Quando fa molto caldo a Milano, lo capisci da molte cose, non solo dal termometro.
1) Le mucche fanno meno latte.
2) I pronto soccorso sono più affollati.
3) Si registra un incremento dei disturbi mentali: per esempio, il settimanale Sette di Beppe Severgnini paragona Matteo Salvini a Che Guevara.


P.S. Se qualcuno ha voglia di ironizzare sulle “mucche a Milano”, pensando a una leggenda pari o superiore a quella degli asini che volano, sarà facilmente smentito dalla statistica: dai dati della Produzione Lorda Vendibile (Plv) dell’agricoltura milanese nella Città metropolitana di Milano, si scopre che la produzione di latte incide per quasi il 40 per cento. (Non si sa quanto "incidano" l'inquinamento del terreno e dell'aria di una delle città e aree più inquinate d'Europa, con i pesticidi presenti nelle acque superficiali e sotterranee, il glifosate, l'atrazina-desetildesisopropil o il metolachlor Esa, ma questa è un'altra storia). Qui di seguito, un lavoro illuminante di tre docenti del Politecnico: tre donne architetto, giusto per dimostrare che gli architetti non sono soltanto quelli dell'Arch Week, delle torri a banana e della "Milano disumana dei grattacieli del Qatar", come la chiama Massimo Fini, o dei grappoli di grattacieli che fanno dire "ooh" alla gente dell'hinterland e che Mario Botta, che non a caso è uno dei nostri preferiti per il suo pragmatismo, ha già definito con una felice sintesi "caricature di città". Milano città agricola

A sud di Milano, dove nel Parco agricolo Sud si resiste con molta fatica alla speculazione che, invece, ha coperto di cemento, tombe residenziali, asfalto e centri commerciali il nord, trovi il latte a 4 km dal Duomo, per esempio al Parco Ticinello, che è già Parco Sud. Vogliamo esagerare? Esageriamo: addirittura, nella cascina Campazzo puoi prelevare il latte crudo da un distributore automatico. Com'è noto, la Lega ha preteso, nella formazione del nuovo governo, il Ministero delle politiche agricole e forestali, insomma l'agricoltura. E non si capisce tutto questo interesse. A nord di Milano, il danno è già fatto. Ma a sud, che mai ci avranno da mungere?
Disegno di Gaspé


Scrivevo cuore con la q, quaderno con la g, quand’ero piccolino così.


Qualche tempo fa parlavo con una coppia di signori sardi di mezz’età che dicevano di venire spesso a Milano. Lo facevano con piacere. A parte la signora che, riflettendo meglio, sbottava: “Sì, però, ma che degrado”. In particolare, si riferiva alle scritte sui muri, di cui non riusciva a capacitarsi. Lei, abituata ai murales, invece vivi e parlanti, di Orgosolo.

Ho detto alla signora: sono ragazzi, crescendo la smetteranno. Ma non era vero: perché, come nelle camerate in caserma quando c’era il servizio di leva obbligatorio, ogni anno arriva il nuovo contingente. Dato che le nascite non sono state soppresse, il mondo per fortuna è forever young. E avanza e si svezza anche a forza di sgorbi, sfregi e tag che si sovrappongono in un reticolo fittissimo e sempre più confuso di sprayate, nero su bianco, rosso su verde, argento su viola, nero su nero, bianco su bianco, eccetera: un delirio che, prima, ti sembra ansia di comunicazione, e che, invece, alla fine denuncia un’afasia cronica. A volte sono crew che giocano a fare le gang come se vivessero a Los Angeles e invece hanno la nonna a Pero e lo zio a Rogoredo. A volte quei segni hanno soltanto il significato di una veloce e corta pisciata dei cani, un segno sconsolato del passaggio in un angolo della strada o alla base di un lampione: io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia.

E intanto le generazioni si susseguono, e si rinnovano anche gli autori dei graffiti, e la storia si ripete all’infinito. E mai che capiti di leggere sui muri una cosa molto ma molto intelligente a beneficio esclusivo di Corrado Augias o di Aldo Cazzullo. Che so, qualcosa tipo Satis longa vita et in maximarum rerum consummationem large data est, si tota bene collocaretur. Che è bella lunga e un muro se lo prende tutto.

E altro che maximum rerum. Che te ne frega, se qui le “grandi imprese” sono altro: tipo i 150 milioni che Sala vorrebbe spendere nell’inutile (se non per le banche a cui pagheremo nei secoli dei secoli gli interessi sul prestito) riapertura dei navigli; il gioco al rialzo della Metro 4 (altri 300 milioni e via) che intanto è ferma nei lavori di cui non si conosce la fine, con strade chiuse e marciapiedi in cui si cammina in fila indiana (corso Plebisciti è il caso più barbaro e significativo); il cemento ad alta densità che si abbatterà su 3 milioni di metri quadrati (per esempio nei cosiddetti ex scali ferroviari, scippati alla cittadinanza e trasformati in proprietà privata dalle Ferrovie), prossimamente su questo schermo. Tutto questo sotto il naso degli ingenui cazzoni impegnatissimi nell’inutile impresa di non dire niente taggando e sprayando i muri di Milano.

Insomma, per molto tempo, e per quanto mi riguarda, i graffitari erano un mistero: ci sono o ci fanno? Sinché un giorno ho inquadrato meglio il problema, mettendo a fuoco (parlo del piano immagine, mica sono incendiario) la palazzina Liberty del Parco Vittorio Formentano, vecchio caffè ristorante del Verziere, e sede del collettivo teatrale La Comune di Dario Fo, e tante altre cose ancora, simbolo insieme di operosità e di creatività, della capacità di reinventarsi. L’ho sempre considerata un luogo “sacro”, intoccabile, una delle cose che mi fanno piacere Milano: e invece era completamente deturpata da una trama urtante e fitta di tag e idiozie senza senso. Quando non c’erano più dieci centimetri di superficie libera, finalmente l’amministrazione si è degnata di pulire e di intervenire con un minimo di ristrutturazione (ma non è stata in grado neanche di abbinare due colori, inserendo uno squallido e piatto grigiolino in alcune pareti esterne).


Da allora, ho cominciato a riconsiderare i graffitari, quelli che mettono il cervello in loop e sovrappongono tag su tag all’infinito, che scrivono come stai con la k o poemi epici del tipo se ti piace la figa tira una riga. Ma è soltanto quando ho visto davanti al portone di un ospedale la firma “cancer”, che il giudizio è diventato molto meno sfumato: perché per andare a firmarsi “cancer” davanti a un ospedale di Milano, bisogna essere semplicemente una banda di idioti. E siccome Milano dice che è sempre più internazionale, e addirittura al Politecnico fanno i corsi in inglese maccheronico, lo diciamo nella lingua di Severgnini, così ci capiscono in eurovisione: A Confederacy of Dunces.


Però però. Ma è tutta colpa dei graffitari? C’è un concorso di colpa. Nel senso che è anche colpa di chi li educa. Mio figlio ha frequentato il liceo artistico. I ragazzi del liceo artistico avrebbero tutto il diritto all’ingresso gratuito nei musei e dove si fa o si espone della produzione artistica (perché sono loro che dovrebbero diventare, in futuro, i custodi del gusto), e invece non godevano neanche di particolari sconti. In tutti gli anni di Storia dell’arte, l’insegnante - considerata l'esperta italiana di Constantin Brâncuși, perciò forse non abilitata a occuparsi di tutto quello che esulava da un ritratto della signorina Pogany o dalla Musa addormentata - non si è degnata di portare una sola volta i ragazzi davanti a un’opera d’arte, ad un simbolo vivo che non fosse un’immaginetta stampata su un libro, ad un esempio dell’ingegno dell’artista, dell’architetto, del designer. Mai. Neanche una volta. Eppure, a venti metri c’era un villino di Gio Ponti: bastava accordarsi coi proprietari, portarli lì in visita, gratis, fargli toccare un mondo, perfino la scelta dei colori originali, e fargli capire perché era un’idiozia deturparne i muri. Ma niente.

L’educazione, la formazione delle conoscenze, è compito della scuola. E poi? Ho letto che il sindaco di Firenze Dario Nardella ha promosso una proposta di legge: introdurre un’ora alla settimana di “educazione alla cittadinanza”. Benissimo, ma soltanto se si introduce anche un’ora di “educazione alle amministrazioni”. Per esempio, educarle a trasmettere l’orgoglio di cittadinanza, di amore, di scoperta e interesse per il luogo in cui si vive. E questo problema riguarda molte amministrazioni.

Milano ha perso le sue caratteristiche di città operaia, attiva e coraggiosa, poliedrica, innovativa, solidale: sono scomparse le fabbriche e tutto il loro indotto (tanto che viene da dire: ma per chi lavorano tutti questi designer che escono da Politecnico e NABA, molleranno il product design per fame e si metteranno a fare UI design e app da vendere a 49 centesimi sull'Apple Store?). Oggi dice di essere una città di servizi, perciò vive di fuffa istituzionalizzata; ha venduto la sua storia, vende il caffè americano di Starbucks a Palazzo Broggi, vende ai cinesi, ai fondi sovrani dei paesi arabi, ai russi e ai tedeschi, e si finge orgogliosa. Ma della sua vecchia identità, di quella storia affascinante, non è rimasta traccia. Niente archeologia industriale, niente riconversione creativa, niente percorsi guidati e illustrati, neanche una targa. L’esempio è la foto che chiude questo testo. È stata scattata nello spazio dedicato al povero, incolpevole Oreste del Buono (che avrebbe meritato altro). Uno spazio verde con i palazzoni e un garage intorno, che, ad attraversarlo tutto, mette tristezza: cani liberi di correre, pisciare e defecare dove capita, malgrado i cartelli di divieto. I soliti spacciatori nella solita panchina nella solita posizione strategica. Ma in quest’area una volta c’era altro, c’era la Motta, con le sue migliaia di galline che davano uova fresche, e il suo esercito di operaie e operai che sfamavano spesso gratis anche la voglia di dolcezze dei ragazzi del liceo Donatelli all’ora dell’intervallo, che occupava uno spazio molto vasto, e si affacciava in corso XII Marzo. Un simbolo di Milano, parte importante della sua storia, della sua economia, della sua cultura, della sua capacità di costruire modelli duraturi di cui beneficiava tutto il Paese, non goffi tentativi di rebranding (rigorosamente in inglese: avete notato come Milano cambia il nome ai suoi quartieri, chiamandoli per esempio North of Loreto o South of Sesto, e intanto i giovani milanesi continuano a fuggire da questa industria del ridicolo per trasferirsi a Londra?). Ma adesso, che è stata fatta tabula rasa ed è stato piantato qualche ippocastano rincoglionito dallo smog, non c’è neanche una targa, non dico un percorso, ma neanche una foto che lo ricordi. E allora, come fai ad affezionarti a una città che non dice niente di sé? Non ci crederete, ma ci ha pensato, a modo suo, un graffitaro a cui piace il blu elettrico: è salito sul muretto, e ha scritto sulla targa di ingresso al parchetto la parola che il parco si merita: Motta, qui c’era la Motta. Cioè ha fatto (a modo suo, con poca eleganza) quello che doveva fare un’amministrazione che pretende di “educare”, non se stessa, ma la cittadinanza.




Scrivevo cuore con la q
quaderno con la g
quand'ero piccolino cosi
Nei banchi della prima b
con te mio dolce amor
vorrei tornar
per cantare ancor...


(Aulì Ulè, Adriano Celentano)


Nu buono guaglione.


(Giugno 2018) Oggi il Corriere di Milano è tronfio di orgoglio, perché un giovane milanese e politico praticamente dalla nascita, l’assessore all’Urbanistica Pierfrancesco Maran, non è caduto nella trappola della corruzione, che ha rifiutato con sdegno. Questo è quello che scrive il Corriere, ma il caso è stato molto pompato anche dalla Repubblica (i due quotidiani, in certe campagne, a volte sembrano due gemelli separati alla nascita).

L’imprenditore Luca Parnasi e gli uomini del suo gruppo puntavano ad esportare il suo sistema corruttivo a Milano. È quanto emerge dall’ordinanza di custodia cautelare. Il gruppo puntò a corrompere l’assessore all’urbanistica di Milano, Pierfrancesco Maran, proponendogli l’acquisto di una casa. Un tentativo caduto nel vuoto perché Maran respinse la «proposta in modo sdegnato». In una intercettazione gli uomini del gruppo Parnasi dicono: «Siamo andati a parlare con l’assessore Maran, gli abbiamo proposto un appartamento ma lui ha risposto di no dicendo che lui “non voleva prendere per il culo chi lo ha votato”. Abbiamo fatto una brutta figura, sembravamo i romani dei film quando vanno a Milano».

Viene da dire: non solo corruttori, ma anche ignoranti. Perché confondono tanti film in uno, da Totòtruffa 62, di Camillo Mastrocinque, quando Totò vuole vendere la fontana di Trevi all’americano, a I tartassati,  a Gli onorevoli con la teoria del do ut des, ad altri film come Totò, Peppino e… la malafemmina, altra commedia di Mastrocinque, con l’episodio indimenticabile dei due che arrivano a Milano. Ma sia Totò che Peppino De Filippo non erano romani: erano napoletani. Forse il famoso “sistema corruttivo” deve fare gli esami di riparazione per recuperare i debiti (quelli formativi, ovvio)? Bene, che passino l’estate a studiare nei cineforum, con dibattiti di quelli duri, però.

E allora, se proprio vogliamo conservare lo spirito napoletano verace di Totò e Peppino, diciamo che siamo anche contenti di avere come assessore “nu buono guaglione”, che su Facebook dice “grazie a questa notizia tante persone hanno ritrovato la loro fiducia nella politica”, e che riceve i complimenti di tutti, anzi diventa un eroe dei social. Però, resta una curiosità. Se c’è stato veramente un tentativo di corruzione, perché Maran è stato zitto e non l’ha denunciato? Aspettava che parlassero i logorroici “romani” che volevano fare i “napoletani” coi “milanesi” (accipicchia, più che una nazione infetta piena di macchiette regionali, siamo un’accozzaglia di casi clinici), e che qualcuno li intercettasse? Forse, una denuncia avrebbe impedito che quel “sistema corruttivo” facesse altri danni. Forse sì? Forse no? Mistero.

Aggiornamento del giorno dopo. Il giorno dopo, comincia a chiarirsi un po’ il mistero, e soprattutto a diradarsi la nuvola dei fumogeni e del munizionamento sparati dai grandi quotidiani a notizie unificate. Innanzitutto, si smonta il caso e si dice che non c’è stato nessun tentativo di corruzione su Maran. Poi la vera notizia ce la dà, al solito, un giornale che sa fare ancora il giornale: il Fatto Quotidiano, e un giornalista coi fiocchi come Marco Lillo. Il caso di panna montata dell’assessore-eroe - ci viene da sospettare per puro piacere della dietrologia - serviva probabilmente a coprire notizie più importanti ricavate dalle intercettazioni sul sistema attribuito al palazzinaro romano Parnasi? In effetti ci resta questo dubbio, nel momento in cui il Fatto, invece, svela anche i finanziamenti elettorali del costruttore destinati al PD e al sindaco milanese Sala (50mila euro) e l’affettuoso ringraziamento a Luca Parnasi: “Sono gratissimo a Luca, senza Luca non facevo la corsa elettorale”. Gratitudinissima che il sindaco ha detto di non aver mai esternato, anzi ha specificato "se avessi saputo che finanziava anche altri avrei restituito i soldi". Però non ringraziare dopo aver ricevuto, legalmente, un contributo di 50mila euro (lo stipendio annuale di quattro precari o di dieci finti stagisti di cui è pieno il Jobs Act di Renzi), ci sembra che travalichi le regole elementari del bon ton. Nel link che segue, un ripassino di buona educazione. https://www.wikihow.it/Essere-Educati


Omaggio a Fuksas.

Particolare di via Camillo Hajech a Milano

(Giugno 2018) In una delle tante week milanesi, la cosiddetta Arch Week in cui si celebrano i santi apostoli del cemento e i professionisti delle parcelle milionarie, e dove fanno capolino sotto mentite spoglie speculatori e immobiliaristi che provano ad apparecchiare la tavola spartendosi i turtei, la frittada e i danè (a Milano e dintorni sono in arrivo costruzioni su oltre 3 milioni di metri quadri: un'enormità), l’architetto Massimiliano Fuksas ha invocato il trasferimento del sindaco Sala a Roma, al posto della Raggi, offendendola. L’architetto di origini lituane (da parte di padre) ha detto alla ridanciana assemblea milanese: “Prestateci Sala per sei-sette mesi. Milano è una città civile. Roma è una città disastrata e la Raggi è quanto di peggio si possa immaginare, con alberi che cascano, autobus che prendono fuoco, buche che ormai sono voragini”. Fuksas: milanesi prestateci il vostro sindaco.

Nella foto, uno degli ultimi autobus milanesi che hanno preso fuoco in giugno

L’architetto ormai noto anche al grande pubblico con l’affettuoso nomignolo Crapa Pelada, ha il dentino avvelenato. Perché la Raggi, all’inaugurazione nel 2016 del Centro congressi dell’EUR (ormai noto come la Nuvola di Fuksas), disse che, fosse stato per lei, quel progetto non l’avrebbe neanche approvato. Secondo Renzi, invece, anche lui presente all’inaugurazione, finalmente “un sogno” diventava “realtà”. E lui, di libri dei sogni e delle favole, se ne intende.

Un incubo, piuttosto: un cantiere eterno, una storia travagliata cominciata nel 1998 da una brillante idea di Francesco Rutelli, proseguita con la posa della prima pietra nel 2007 con Walter Veltroni, sindaco altrettanto brillante con i soldi degli altri, e poi anni di ritardi, polemiche, ristrettezze di bilancio, ulteriori debiti (l’ultimo è il prestito del generoso governo di Renzi di 100 milioni di euro da restituire in trent’anni), concordati preventivi. Sino alla tormentata inaugurazione del Centro nel 2016.

Secondo Fuksas, il consuntivo finale della Nuvola era di 238,9 milioni di euro. Secondo Sergio Rizzo, invece, quei 18 anni sono stati “punteggiati dalla follia” e “il costo sostenuto per il nuovo centro Congressi di Roma schizzerebbe oltre i 400 milioni di euro”. Perciò si può capire la polemica innestata da Virginia Raggi proprio il giorno dell’inaugurazione. La nuvola-macigno.

Quattrocento milioni e 18 anni di tormenti. Come giudicare, oggi, quel rapporto con committenti "illuminati" come Rutelli e Veltroni: circonvenzione di incapaci? In confronto, Virginia Raggi ci sembra un supereroe della Marvel o della DC Comics. Perché per sfidare gente di establishment e di apparato come Fuksas e Renzi e la loro claque con bordata di fischi in diretta televisiva, ci vuole, o una dose da cavallo di incoscienza, o tutto il coraggio di Wonder Woman.

Ora, tralasciamo i giudizi estetici, molto soggettivi perciò anche non condivisibili, tipo Vittorio Sgarbi che afferma nella trasmissione di Formigli “non ci sono i soldi per aprire i musei o per pagare l’affitto del museo medioevale all’Eur, però fanno quella merda che ha fatto Fuksas, è inaudito”. Molto meglio il sindaco Sala, che alla leccata adulante ma con juicio di Crapa Pelada (“mettete Sala a Roma al posto della Raggi”), risponde in modo intelligente e stranamente solidale (addestrato alle tecniche di sopravvivenza dei manager, sa quando il vento gira, e dove): “I problemi di Roma dipendono in larga misura dal deterioramento dei suoi servizi di base prima ancora che dal ruolo del sindaco”. E quanti “servizi di base” avrebbe avuto Roma, oggi, con quei 400 milioni? Ecco, questo è il problema: come spendono i soldi quei sindaci come Rutelli e Veltroni che non dormono bene se nessuno gli fa il mausoleo o un Lincoln Memorial.

PS. La foto sotto il titolo è un particolare di una strada milanese, via Camillo Hajech: la strada di una città civile, come la chiama l'architetto italo-lituano. Mentre la canzone che segue, Crapa pelada, è un piccolo capolavoro dello swing italiano, scritto da un italianissimo (un lombardo di Rivarolo Mantovano) dal nome un po’ straniero: Francesco Kramer Gorni. Il secondo nome fu scelto dal padre in omaggio al pistard statunitense Frank Kramer.


Crapa pelada la fà i turtei
Ghe ne dà minga ai soi fradei
Oh! oh! oh! oh!

I so fradei fan la frittada
Ghe ne dan minga a Crapa pelada
Oh! oh! oh! oh!

Crapa pelada la fà i turtei
Ghe ne dà minga ai soi fradei
I so fradei fan la frittada
Ghe ne dan minga a Crapa pelada

Crapa pelada la fà i turtei
Ghe ne dà minga ai soi fradei
Oh! oh! oh! oh!

Crapa pelà, crapa pelà, crapa pelà
Crapa pelà, crapa pelà
Oh! oh! oh! oh!

Crapa pelà, crapa pelà, crapa pelà
Crapa pelà, crapa pelà
Oh! oh! oh! oh!

Crapa pelà, crapa pelà, crapa pelà
Crapa pelà, crapa pelà
Oh! oh! oh! oh!



Piantala Beppe!

(Giugno 2018) Il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, è stato prosciolto - perché “il fatto non sussiste” - e non andrà a processo per l’abuso d’ufficio relativo all’affidamento senza gara, ai tempi di Expo, della fornitura di 6 mila alberi pagati il triplo del loro valore, procurando un presunto danno erariale di 2,2 milioni di euro.

La storia è lunga e complessa, non è il caso di riesumarla: in rete si trovano molte notizie. Diciamo che il giudice milanese ha rilevato che Sala non era soltanto amministratore delegato di Expo 2015, ma anche commissario unico di governo con “ampiezza di poteri”. Un po’ come i supereroi della Marvel che hanno dei poteri straordinari e, se serve, possono pagare una pianta 716 euro, mentre un’impresa vivaistica la vende a 266 euro.
Ora, siccome Expo 2015, per dirla con Carlo Petrini, "ha avuto l'ardire di scegliere come tema il cibo" (lo slogan stiracchiato era "Nutrire il pianeta. Energia per la vita"), bisognerebbe ricordare che all'Ipercoop si compra un albero da frutta tra 7,50 e 8,50 euro (vedi foto). Avete capito bene: non 760, ma 8 euro. Un albero da frutta cresce da 40 cm a un metro l'anno. Si sviluppano presto, soprattutto se sei bravo a potare e concimare. Ogni albero può dare anche 40 kg di frutta. Moltiplica per seimila alberi, e ottieni 2400 quintali di frutta, che avrebbero sfamato un sacco di persone. E non basta: gli alberi da frutta sono cose meravigliose. E l'avevano capito i tanti milanesi che al quesito referendario "volete voi che il Comune di Milano adotti tutti gli atti ed effettui tutte le azioni necessarie a garantire la conservazione integrale del parco agroalimentare che sarà realizzato sul sito Expo e la sua connessione al sistema delle aree verdi e delle acque?", proposto nel 2011 dalla ingloriosa amministrazione Pisapia, avevano risposto "e certo che sì" con un altissimo consenso: il 95,29%. E sapete che ci faranno adesso? Ci spalmano il cemento con intorno i soliti spelacchi che fanno tanto giardino condominiale.

Però: seimila alberi. Non sono pochi e non è facile fare i conti. E poi, quando di mestiere fai quello che risolve i problemi, a volte rischi di facilitare troppo, e a certe cose non dai retta. Come per esempio quando da piccolo hai una mamma asfissiante che sta sempre a sgridarti, tu non le dai retta, e lei ti intima: “Piantala Beppe!”. È così che certe fisse ti restano anche da grande: rischiando di piantarla, non una, ma seimila volte.


Caccia al mostro. Nella foto: Rai News24 dedica i titoli d'apertura all'ennesimo servizio sul sindaco di Roma. Invece, sul processo al sindaco di Milano per falso e abuso d'ufficio (e lì si parlava di ben altro, non del cambio di ruolo di un dirigente del Comune), mai un cenno.



Miracolo a Milano.


"Vivo da trent'anni a Milano e non l'avevo mai vista così bella." (Daria Bignardi, intervista all'Unità)

"Non mi piace Milano, preferisco Varsavia o Cracovia. E poi è tanto sporca." (Eva, migrante polacca)

"Milano è la Cartoonia del PD. Lercia, volgare, classista, ipocrita. Deprimente. Si salva ancora qualche servizio, ma se il beppolone finisce il mandato, riuscirà a spianare tutto." (Alberto, operatore finanziario)

"Milano sarà anche più bella, ma non è detto che sia migliore." (T.N.T.)



Asta la victoria siempre.

La testata dell’Unità finisce all’asta. L’annuncio è comparso nella seconda metà di maggio su benimobili.it, istituto di vendite giudiziarie di Roma. Destino triste, solitario y final per il giornale nato comunista e morto renziano. Quello che molti non ricordano, o non sanno, è che L’Unità nacque proprio a Milano (da un’idea di un sardo di origini albanesi con un cervello grande così: Antonio Gramsci).

L’altro che molti sanno, ma non dicono, è che L'Unità ha beneficiato (i suoi direttori, i suoi giornalisti, da Walter Veltroni a Furio Colombo, a Concita De Gregorio) dei finanziamenti pubblici riservati all'editoria di partito. È stato il quotidiano che ha ricevuto annualmente il contributo più alto: dal 1990 al 2014, oltre 154 milioni di euro. Difficile solidarizzare e dire, ora che chiude e va impietosamente all’asta, “povera” Unità.


Povero Gramsci, piuttosto, il cui nome viene ancora associato a questo caravanserraglio. Per dire: ma vi ricordate la famosa “svolta Veltroni”? Il Walter diventato direttore che, per rilanciare il giornale “come luogo del dibattito nella sinistra”, ristampava gli album delle figurine Panini dei calciatori?

E adesso che si chiude un’epoca? Solo una raccomandazione: per favore, compagni, da ora in poi lasciate in pace Antonio Gramsci. E, se possibile, andate a da’ via i ciapp. O, come si direbbe nella lingua di Antonio: a la leare in culu e a passare bonas festas.



 
Venghino siore e siori venghino!

(Maggio 2018) "Modello Milano" è il nuovo brand venduto sino allo sfinimento dal sindaco Sala, dalle banche in lieta attesa di grassi investitori stranieri e dai giornali che li sostengono. In questa narrazione favolistica di una Milano improbabile caput mundi (dove l'unico primato, indiscusso e documentato, è quello dell'inquinamento), mancava la ciliegina, che puntualmente è arrivata: “Milano modello di legalità”. Nello stesso giorno in cui nei giornali milanesi veniva lanciata questa notizia, ne leggevamo un’altra, di cronaca: “Colpito alla testa con una mazza da baseball. È grave”. E giusto perché siamo “campioni di legalità”. Figuriamoci se non lo fossimo.
Sempre nello stesso giorno, nel corso di un incontro per ricordare Falcone e Borsellino alla vigilia del ventiseiesimo anniversario della strage di Capaci, Pietro Grasso, ex presidente del Senato, ex magistrato, già procuratore nazionale Antimafia, diceva: “Noi sapevamo fin dagli anni Cinquanta e Sessanta che la mafia era a Milano, ma nessuno ha mai voluto ammettere che la mafia fosse a Milano. Fino a poco tempo fa, il Prefetto di Milano diceva che la mafia non esisteva lì”.

Quando, nell’esaltazione di un brand così fittizio, si esula artatamente dalla realtà quotidiana e si sparano numeri e cazzate a caso come nelle peggiori campagne pubblicitarie e nelle dure e pure operazioni di marketing disperato, di cosa parlano quelli che strillano “Milano capitale della legalità”? A noi viene in mente soltanto l’atmosfera in cui nacque il leggendario titolo del settimanale Cuore diretto trent’anni fa da Michele Serra, che a Milano ha fatto il liceo Manzoni e all’Unità di viale Fulvio Testi 75 il dimafonista (come usava allora). Quell’atmosfera, con quelle nubi, incombe sempre su Milano. Non si è mica diradata.

 

Sapessi com'è strano darsi appuntamenti a Milano.


Mi è capitato di vedere quest’annuncio molto pragmatico in una strada di Milano. Negli Stati Uniti, un matrimonio su tre proviene da un incontro online (infatti Mark Zuckerberg entrerà a breve in questo settore molto promettente del business - quello della solitudine e dei cuori solitari - creando uno strumento chiamato Dating, utile per trovare una “relazione durevole” tra i 200 milioni di utenti di Facebook). Che a Milano ci si affidi, invece, a una bacheca improvvisata, non è proprio un segno di “capitale dell’innovazione”. O no?

Nella narrazione favolistica della Cartoonia d’Italia (come la chiama l’Alberto citato nel nostro sommarietto), insomma di questa metropoli di cartapesta, assistiamo ad un crescendo grottesco di autocelebrazione: se prima era la capitale morale (quando Giovanni Verga la definiva “la città più città d’Italia”), adesso è la capitale di tutto; anzi, la “città più città d’Italia” è diventata “la città italiana più vicina a New York”, secondo il Corriere della Sera (chissà perché proprio New York, poi). E non basta. Se scorri una sequenza di titoli dello stesso giornale in preda ad una esaltazione smisurata e al narcisismo patologico, viene fuori che Milano è la capitale del turismo, del cinema, capitale delle scienze, capitale dell’inclusione ma anche dell’intrusione (qualche furtarello in casa, qualche coltellata e qualche stupro in strada, suvvìa, che vuoi che sia), capitale del reddito pro capite, capitale dell’innovazione, della ricerca, delle startup, della medicina predittiva, della salute, persino dei centenari, della moda, della tecnologia, del design, del social, del food, del mobile, dell’editoria, del divertimento, capitale dell'arte e del teatro (l'ha scritto di recente Schiavi sul Corriere della Sera), della finanza, del glamour, e alla fine anche capitale della coca e della prostituzione (ma tanto nessuno se ne vergogna, ormai sono voci che contribuiscono al Pil, anzi è da ottobre del 2014 che l’Istat inserisce una stima delle attività illegali nel calcolo del Pil italiano) e pure capitale del cemento, però quello bello, anzi il più bello del mondo. Stava anche per diventare la capitale del farmaco (con il trasferimento da Londra dell’Ema, l’agenzia europea del farmaco, ma è andata male: i dipendenti della stessa Ema preferivano come propria sede Amsterdam alla città più inquinata d’Europa, e non si capisce perché, si sono lagnati Sala e Maroni, il leghista doc col tovagliolo verde infilato nel taschino: in fondo avevano le medicine gratis).

In questo stato allucinatorio collettivo, in questa pericolosa autocelebrazione tendente al bauscia (e diciamo pericolosa, perché ci ricorda qualcosa che incombe sulla pianura padana come la nuvola di Fantozzi e che prima o poi ritorna: il circo di Craxi e gli appetiti fenomenali del business, tanto per dire, di cui tra l'altro proprio in questi giorni - era un 30 aprile - si celebra il leggendario lancio di monetine all'uscita dall'hotel Raphael), mancava qualcosa, ed è arrivato: Milano capitale dell’amore. Non l’avremmo mai immaginato, eppure è così. Capitale dell’amore, con tanto di festival, e con il patrocinio del Comune di Milano. Si è svolto nel mese di febbraio. Partecipava il solito circo di attrazioni televisive e non, musica, reading, talk, cinema, installazioni, show cooking, party e riti d’amore. E chissà perché, c’era anche l’architetto Stefano Boeri, quello del “bosco verticale”, che forse si appresta a fare anche il bosco obliquo, quello a 90 gradi, e poi via via tutte le 64 posizioni del Kama Sutra applicate al vetrocemento (quello che notoriamente permette il passaggio della luce senza compromettere la privacy).




Saluti da Milano.

(Aprile 2018) Il 29 aprile, a due giorni dalla celebrazione del rosso (1° Maggio), Milano ha preferito celebrare il nero.

È successo questa domenica pomeriggio. Passato il cavalcavia Buccari, in viale Argonne, era tutto fermo: code di auto, presidi e cellulari di carabinieri e polizia. E che sarà mai, mi chiedo. Poi mi ricordano: è il 29 aprile, sarà per Ramelli. E infatti. In via Paladini c’era il raduno in camicia nera, cioè non proprio in pompa festiva. E via Paladini è una via stretta e tristanzuola, e per giunta senso unico, non è mica piazza Venezia. Ma non bastava un semplice ricordo in chiesa, una cosa così, alla buona, tra amici e parenti?

Io, invece, mi ricordo che Milano è una delle città italiane decorate al valor militare per la guerra di liberazione. “Per i sacrifici subiti dalla sua popolazione e per la sua attività nella Resistenza partigiana”, mi sembra di aver letto da qualche parte. Ma forse ho letto male.



Milano, capitale della "food innovation internazionale".


(Maggio 2018) Ammàzzeli, quanto maggneno! È quello che viene da dire dei milanesi, dando retta alla cronaca: da qualche tempo, dopo la scorpacciata con sbornia di Expo 2015, Milano si è autoeletta “capitale mondiale del food” (food, da non confondere con cibo, che è un’altra cosa). Anzi (ci è capitato di leggere anche questa): capitale della "food innovation internazionale”. Una prova? La foto che abbiamo scattato nella centralissima via Mascagni, dove un signore straniero cucina i suoi piatti preferiti en plein air. Attrezzato di tutto. Fornello con piattello anti vento, design moderno, stabilizzatori pentola inox, accensione tradizionale, con bombola gas butano altamente infiammabile. L’abbiamo visto più volte nello stesso posto. Tranquillo, solitario, concentrato sulla scarpetta. Poi smonta tutto senza lasciare residui degni di nota, fuma qualche sigaretta e fissa il vuoto. Poi se ne va. Non sappiamo se il caso rientri nella "food innovation" celebrata con molta insistenza nei più autorevoli giornali, dal Corriere della Sera a Vanity Fair. Possiamo soltanto testimoniare che gli odori prodotti sono abbastanza intensi.




Cartoline (con paesaggio) da Milano. 



Milano, via Bartolomeo Eustachi. Meglio conosciuto come Eustachio, anatomista, teorizzò lo studio della tuba auditiva destra, oggi nota come "Tromba di Eustachio".


Milano, via Giuseppe Compagnoni. Costituzionalista e letterato, considerato il "padre del Tricolore".


Milano, via Fratelli Bronzetti, patrioti trentini.


Milano, via Temistocle Calzecchi, fisico, inventore e insegnante. Insegnò fisica anche al liceo Beccaria di Milano.


Milano, via Macedonio Melloni, fisico e patriota.


Milano, particolare di via Camillo Hajech.


Il dottor Camillo Hajech (il tenero signore rappresentato nel dipinto qui sopra), primario di Pediatria presso l'Ospedale Maggiore, fu tenace propugnatore dell'istituzione degli ospizi marini per la cura della tubercolosi. Morì a 81 anni nel 1934. In via Hajech si trovano generalmente delle auto parcheggiate sul marciapiede davanti a una palestra di fitness, un assembramento di auto di grossa cilindrata (per esempio una rossa Ferrari) con targa bulgara, il Liceo artistico di Brera e alcuni bei palazzi. Sempre in via Hajech si trova il villino Siebaneck di Gio Ponti costituito da due piani e sottotetto, con sette locali. Ha perso parte del suo fascino originario, certi elementi architettonici e importanti particolari, per esempio il colore è un po' spento, diciamo un po’ diverso (rifatto anche per coprire il degrado delle numerose demenziali tag, ma è una guerra persa), però è sempre interessante da vedere per alcune caratteristiche tipiche dei progetti di Gio Ponti: pittura murale sulla facciata, grandi finestre che illuminano gli ambienti principali, gioco di logge e terrazzi (nel versante opposto alla strada). 


Il villino Siebaneck in via Hajech progettato da Gio Ponti.


Milano, via Bazzecca. Tra la sede secondaria del Comando Decentrato 4 della Polizia Locale e la Scuola comunale dell'infanzia.

Milano, corso Plebisciti.


Milano, via Tertulliano, scrittore romano e apologeta cristiano.


Milano, piazzale Susa. Il grande ritorno della Milano da bere.


Milano, via Augusto Anfossi, patriota italiano morto a Milano nei moti del 1848. A fianco, marciapiede di via Bronzetti utilizzato da tutti meno che dai pedoni: deiezioni canine, moto, bicicletta.


Milano, sulle strisce di via Marcona. A fianco, viale Umbria.


Milano è una città strana. I cani sono liberi di circolare per strada, nei giardini e nei parchi senza guinzaglio. Alla catena finiscono le piante, come questi due pericolosi olivi da guardia.


Piazzale Dateo: un rottweiler attraversa la strada privo di guinzaglio, a una certa distanza dalla padrona, che non lo controlla e gli volta le spalle. Da Wikipedia: "L'istinto alla difesa del territorio è, in questo cane, molto forte, e la sua reazione contro quelle che esso percepisce come minacce territoriali può essere fatale. La maggior parte degli omicidi causati dai cani derivano da questa specie". Mi capita, sempre più di frequente, di vedere cani liberi per strada e nei parchi, rottweiler, pit bull, pastori tedeschi, mastini napoletani, bull terrier. Il Comune è molto tollerante: colpevole noncuranza in cambio di facile consenso. Del resto, Dudù insegna.


Cani liberi nei giardini della Guastalla. Qui, da una decina di anni, sono state adottate delle fasce orarie nelle quali è consentito lasciare liberi i cani. Nel mese di aprile, per esempio, dalle 7.30 alle 10.00 e dalle 18.00 alle 19.00. La foto è stata scattata nel mese di aprile intorno alle ore 17.00, ed era pieno di cani. Il Comune di Milano dice espressamente che "al di fuori degli orari stabiliti è possibile l'intervento delle autorità preposte con erogazione di sanzioni pecuniarie". Ovviamente "è possibile" non significa "è garantito", perciò chi se ne fotte: non c'è mai stato nessun controllo, e ovviamente nessun "intervento".



Infatti, su Tripadvisor leggo la recensione di un turista, il signor roberto b, sotto il titolo GIARDINI POCO CURATI: "In occasione di una visita guidata alla Sinagoga ho avuto modo di passeggiare in questi giardini che avevo visto solo dall'esterno passando in Via Francesco Sforza. Ho letto giudizi entusiasmanti che faccio molta fatica a comprendere. È vero che siamo in inverno, ma i giardini mi sembrano mal curati (a parte i volontari che stavano pulendo i cestini tutti imbrattati dai soliti vandali, pure i cartelli che dovrebbero illustrare i giardini sono in gran parte illeggibili perché pieni di sfregi pittorici). Inoltre ho sentito la guida che ci accompagnava definirli “i giardini dei bambini”, ma io ho visto soltanto un assembramento di cani nei prati con i loro padroni ma neanche un bimbo. Pessima esperienza che non ripeterò".



Corso Indipendenza, situazione diversa. Qui, in uno spazio dedicato soprattutto ai bambini, i padroni lasciano liberi i propri cani, malgrado la presenza di un esplicito cartello di divieto in italiano e inglese (tra l'altro, sempre in corso Indipendenza, versante Dateo, c'è una bella area recintata destinata ai cani, poco usata, forse perché l'erba del vicino è sempre più verde). Non c'è una recinzione, e i cani invadono improvvisamente la pista ciclabile (si intravede un pezzo di pista nell'angolo a sinistra in basso nella foto) creando delle gravi situazioni di pericolo per chiunque sopraggiunga con la bici. Anche qui, l'amministrazione comunale non interferisce, sulla base di una lungimirante Dudù strategy e di una più pragmatica logica lombarda da pet shop. Pierfrancesco Maran è l'assessore con delega al Verde, ma anche all'Agricoltura e all'Urbanistica, assessorato "pesante", soprattutto a Milano. Su cui ha indubbie competenze: infatti è laureato in Scienze Politiche. Il giovane assessore è in pista dai tempi della giunta Pisapia, quando, appena trentenne, risultò il secondo consigliere del PD più votato. Un successo determinato anche, si disse allora, dalla vicinanza a Filippo Penati, l'ex presidente della Provincia poi indagato per le tangenti del cosiddetto "sistema Sesto", ma da cui prese le distanze, con ottimo senso dell'opportunismo. Ha scritto a proposito Gianni Barbacetto, nel 2011: "Quando il suo capo era in auge, vero padrone del partito a Milano (ora abbiamo capito perché: potere dei soldi), si vantava di essere il suo delfino. È un giovane abile e non privo di capacità. Ma a Milano non si diventa il secondo dei più eletti se non si mette in moto (anche) l’apparato di partito".



Milano, via Goldoni. Cartello di supplica davanti all'asilo nido.


Milano, nella foto in alto: in acrobazia sul muretto in mattoni di piazza Giuseppe Grandi, scultore (scena notata più volte, significa che cane e padrone ce la mettono tutta per lasciare un segno del loro indimenticabile passaggio). Segue una sequenza di cacche rateizzate in via Mameli, patriota, poeta e scrittore, tra le figure più importanti del Risorgimento italiano.


Milano, via Macedonio Melloni, a 20 metri dal noto ospedale. A fianco, via Gustavo Modena, attore teatrale e patriota.


Milano, via Ciro Menotti, a poca distanza dal teatro (ora Teatro Menotti, dove una volta si trovava il Teatro dell'Elfo di Salvatores, Cristina Crippa, Rossi, Bisio ecc.). Ciro Menotti era un patriota italiano: Giuseppe Garibaldi usò il suo cognome come nome per il proprio figlio primogenito.


Milano, via Pietro Mascagni, compositore e direttore d'orchestra.



Milano, parcheggio esemplare sul marciapiede di corso Indipendenza.


Milano, via Cervignano. Colonna di auto su pista ciclabile, spazi verdi e marciapiede.


Milano, via Luisa Battistotti Sassi, patriota, coraggiosa combattente durante le cinque giornate di Milano. In evidenza: grandiosi parcheggi al centro della strada e sul marciapiede.


Milano, largo Marinai d'Italia. A 200 metri c'è la celebre palazzina liberty dedicata a Fo e Rame.


Milano, asilo di via Anfossi.


Milano, attacco di diarrea in via Giuseppe Piolti de' Bianchi. A destra, via dei Mille.



Milano, Bastioni di Porta Venezia con cacca. Nel 2007, metà dei Bastioni è stata intitolata alla città di Fiume dalla giunta di destra. Ne diede il lieto annuncio il vicesindaco De Corato, detto anche il "vicesceriffo", pugliese di Andria. Il motivo? Faccio un'ipotesi: forse perché la vicina piazza della Repubblica una volta si chiamava piazzale Fiume. Quando?  Nel Ventennio, ovviamente: dal 1931 al 1946.


Milano, colata gialla lavica su un muro della via dedicata all'incolpevole Giulio Ceradini. Fisiologo e naturalista milanese, partecipò alla spedizione dei Mille.


Lato guidatore, con sorpresa. Davanti al pronto soccorso.






Questa è la mia visione di Milano - liquami, cumuli di mozziconi, cartacce e avanzi di cibo, depositi di immondizia varia, sacchetti con delizie canine, lattine e barattoli di vetro, lampade al neon, insomma di tutto, persino tre paia di calze come nell'ultima foto - ogni volta che parcheggio la mia bicicletta in piazzale Dateo, dove si trova la stazione del passante ferroviario. Bicicletta che ogni tanto viene rubata, manomessa, depredata (leve dei freni, pattini, ruote, cavalletto, coprisella, dinamo, persino un dado). E non siamo neanche in una periferia dimenticata da Dio o dal sindaco, ma in una zona praticamente centrale, a sei minuti in bici da piazza San Babila. Sino a poco tempo fa, qui cresceva anche l'erba sino a un metro di altezza (adesso non più, a parte una leggera erbetta: miracoli del glifosato?). Dopo molte segnalazioni, finalmente l'Amsa opera abbastanza regolarmente con spazzamento e pulizia. Alla polizia locale spetterebbe il compito, neanche tanto difficile, di individuare i produttori di tanta sporcizia. Ma non c'è nessun controllo: è terra di nessuno.